11 luglio 2011

R'acconti

Come forse avevo già accennato, io e BadGuy ci siamo divertiti a scrivere dei racconti su un tema scelto da noi. In questo caso il tema, l'ho scelto io, era la monnezza.
Ed eccovi i racconti:

Carla

Una questione di cestino

E’ difficile spiegare come sono arrivata a questo punto, come sono arrivata qui, in questo ospedale, e perché io mi senta così intorpidita dalla luce che mi viene sparata sugli occhi per verificare cosa poi? Forse il fatto che io sia viva.
I ricordi si intrecciano nella mia mente, come fotografie sfuocate mescolate in un cassetto. E’ troppo difficile riordinare. E’ troppo complicato ricordare. Ma devo provarci.

1° giorno.
E’ il mio primo giorno di lavoro e sono entusiasta. Ci sono immagini non definite ma so per certo che ho cercato di socializzare. E mi ricordo il caffè del bar. Non era buonissimo ma per me i caffè sono tutti uguali. E poi ovviamente la mia scrivania, un po’ isolata dagli altri ma meglio. Nessuno mi romperà le scatole se scarico la posta ogni tanto, se mi infilo le dita nel naso, se scrivo sul blog.
Così mi viene un attimo fame e tiro fuori dalla borsa la mia merendina. Noto però che sotto la mia scrivania non c’è il bidoncino della spazzatura. Cosa buffa, perché nemmeno sotto la scrivania accanto alla mia. Penso che sia normale, in fondo queste due scrivanie prima del mio arrivo erano vuote, così mi alzo alla ricerca di un cestino e lo trovo sotto alla scrivania di M.
M. è l’unico autoctono tra i miei nuovi colleghi, gli altri arrivano tutti da fuori: fa un po’ il boss ma sembra simpatico. Mi chino a lanciare l’involucro del mio pasto all’interno del sacchetto scuro ma ecco che nell’aria avverto qualcosa.
Vi è mai capitato, nel silenzio più totale, di accorgervi di sentire qualcosa, una presenza? E di girarvi e accorgervi che, nonostante il silenzio e la mancanza di altri indizi, quella presenza è davvero lì. E quanta inquietudine quando invece vi voltate e non vedete nessuno alle vostre spalle? Fermate quella inquietudine, fissatela. E’ quella che provo ora. Il silenzio è totale e quando mi volto tutti mi stanno guardando. La mia risatina isterica li scuote un attimo: mi sento in estremo imbarazzo, ma la cosa finisce così. Nessuno ne parla più e ognuno torna alle sue mansioni.
2° giorno.
Non è che ci sia tanto da fare. Quando mi hanno assunta non avevano previsto che ci sarebbe dovuto essere qualcuno ad affiancarmi. Ma non può nessuno perché sono tutti molto impegnati. E io non so cosa chiedere e a chi chiedere. E’ una questione di timidezza penso. Non voglio disturbare, non voglio passare per ignorante, non voglio che uscita da quella porta qualcuno possa pensare male di me. E’ che quando sono nervosa mangio, e non so ancora dove posso buttare la mia spazzatura, dato che continuo a non avere un cestino.
Mi ricordo la strana sensazione provata il giorno prima ma mi convinco che si trattasse solo di una mia impressione, quindi mi alzo e cerco. M. mi guarda malissimo ma non capisco proprio come mai, così mentre passeggio con lo sguardo basso, cercando il famoso unico cestino di tutto l’ufficio, mi sistemo i capelli, eterna fonte di preoccupazione femminili - è il primo pensiero quello dei capelli, quando qualcuno ti fissa.. Peccato che il cestino non sia più sotto alla scrivania di M. “Scusate ma qui c’era un cestino, dov’è finito?”.
Nessuna risposta. Metto in tasca l’involucro della mia merendina e lascio passare quella stana sensazione.
3° giorno.
I miei colleghi sono proprio simpatici, in uno scherzo mattutino mi hanno staccato e scotchato tutti i cavi del pc facendomi perdere un’allegra mezz’ora. Sono qui da molto poco ma mi trovo davvero benissimo. Lo faccio presente anche a loro che mi massacrano di battute e devo dirlo: sono stata davvero fortunata. Appallottolo tutto lo scotch e mi metto nuovamente a cercare il cestino che, oggi, è in un angolino dietro l’attaccapanni, parzialmente coperto dai vestiti. Solo che quando mi ci avvicino succede qualcosa. Qualcuno, che in quel momento si trova dietro di me, mi da’ una lieve spintarella in avanti e per poco non cado. Ma quando mi giro non c’è nessuno. Mi chiedo davvero cosa ci sia legato a questo stupido cestino. Forse una questione di leadership. Per allentare la tensione sorrido a come possa essere possibile collegare questa parola a un semplice sacchetto della spazzatura. Ma ho un piano B.
4° giorno.
Appena arrivata poso la mia borsa sulla scrivania, saluto e vado ai piani alti. Infatti il mio ufficio, o meglio open space, è al primo piano ma al terzo ci sono i supercapocci. C. mi accoglie nel suo enorme ufficio semivuoto. Gli spiego la situazione, del cestino, della strana sensazione, e in un attimo mi sento stupida, si metterà a ridere, penso. Invece mi guarda con aria grave, appoggia la schiena sullo schienale in pelle nera della sua poltrona e unisce la punta delle dita delle due mani in un gesto pensieroso. Poi cambia atteggiamento: “Suvvia, che sarà mai? Si tratta solo di spazzatura. La getti fuori”.
Non conosce la frase “è una questione di principio”, ma che principio può legare spazzatura, ufficio e astio?
Lo saluto e decido di passare a un’altra strategia. In pausa pranzo vado al supermercato qui sotto e compro un bel cestino. Entro trionfante in ufficio portando tra le mani il cestino già corredato di sacchetto. Silenzio.
Lo poso sotto la mia scrivania ed esco a mangiare.
Peccato che, una volta tornata, trovo il mio cestino completamente distrutto. E’ in mille pezzi, e non ho nemmeno idea di come possano essere riusciti a ridurlo così. Non so come mai ma mi sento così frustrata, così impotente. E tutto per uno stupido cestino. Non so cosa mi è preso, ho cominciato a girare per l’ufficio, quasi correndo, nervosa, per cercare quello stupido oggetto di contesa. M. fa come per alzarsi mentre io sollevo il cestino e comincio a urlare “E’ per questo vero? E’ solo per questo? E’ solo un cazzo di cestino” e, sollevatolo sopra la testa comincio a vuotarlo per terra mentre M. mi corre incontro e F. lo segue a ruota. In poco tempo ho due persone a tenermi ferma. E davvero non so cosa sia successo, comincio a sbattere qua e là il cestino per romperlo ma non riesco, M. e F. sono due uomini, grandi e grossi, eppure fanno fatica a bloccarmi così, anche se poco, mi rimane un po’ di movimento.
In un impeto di rabbia, o follia, o non so cosa, prendo le forbici che trovo sulla scrivania di I. e le pianto in pancia a M. che finalmente molla la presa. Ora tocca al taglierino, che uso per sgozzare F. Non capisco più quale sangue mi scorre addosso mentre loro scivolano via da me e cadono a terra, in una pozza rossa. Con la forbice ripresa dal ventre di M. comincio ad “accoltellare” il cestino e giuro, mi pare di aver sentito uno strano suono provenire da lì.
E mi sembra di aver visto qualcosa fuoriuscire dalla plastica, un liquido, come se quel cestino non fosse solo un pezzo di plastica, ma come se avesse dei fluidi vitali dentro di sè.
Questo è quello che ho detto, quando l’ambulanza mi ha portata via.
Questo, ma loro non mi hanno creduta. E ora qui, tra morbide pareti bianche, non ho più bisogno di un cestino. Non più.

BadGuy

Monnezza

Il vestito di seta bianco era sul letto, un semplice velo, quasi trasparente, dell’eleganza che solo i disegni più
semplici possono avere. Quasi galleggiando nella luce soffusa, si avvicinò al letto e indossò l’abito sulla pelle
nuda in modo che cadesse perfettamente a disegnare le sue forme. Acceso lo specchio olografico, Karima
spostò con una mano i capelli corvini e sorrise maliziosa alla sua immagine 3D, poi, con un gentile gesto
delle dita, fece ruotare la figura olografica ed osservò compiaciuta il tessuto che le incorniciava la schiena
e le accarezzava le gambe. Tutte le sue insicurezze sparirono per un attimo in quel sensuale vestito che la
faceva sentire finalmente donna e ripeté a se stessa che, davvero, davvero era stata fortunata .

Seguita dalla microcamera dello specchio olografico andò a spostare le lunghe tende di morbido nylon
lasciando che un fascio di luce accendesse la polvere sospesa nell’aria, avvolgendo l’ologramma di una
superficie brillante e illuminando il suo primo incredibile regalo di nozze.

Era un one-way magic- hole costruito in un prezioso mobiletto di mogano sovrastato da un piccolo vassoio
dorato. Si trattava, anche tecnicamente, di un modello del tutto particolare, che, invece di usare il sistema
standard di distribuzione, quello giù al porto, lasciava passare direttamente gli oggetti dalla terra!

In quel vassoio, una settimana fa, era comparso il secondo regalo: un anello d’oro con un rubino: due
materiali rarissimi che, se mai qualcuno gli avesse dato un prezzo, sarebbero probabilmente costati più del
castello stesso.

Dietro al mobiletto stava appeso un modesto calendario di carta riciclata con un cuore disegnato a
pennarello rosso sul 3 di dicembre: era il suo diciassettesimo compleanno; come diceva spesso a suo padre,
il pretore Hosnisayiddi Ibrahim, troppo tardi per sposarsi.

Scalza, come voleva la tradizione, uscì sulla scalinata esterna, si fermò e, lasciandosi accarezzare dal fresco
vento invernale inspirò percependo il familiare odore dei cantieri. Oltre le mura osservò il suggestivo
paesaggio di cangianti polveri cristallizzate, vivide come una distesa di ghiaccio al sole. Quello sarebbe stato
il suo regno. Per qualche istante lasciò i grandi occhi grigi liberi di inseguire i corvi che disegnavano neri
cerchi attorno alle torri maestose riflettendo su quanto stava per succedere.

Mancava poco più di mezz’ora, molti degli operai dei cantieri avevano avuto giornata libera, al piano di
sotto il castello sarebbe stato già in fermento e suo padre, ne era certa, era già lì a controllare che ogni
ingranaggio del meccanismo organizzativo facesse esattamente il suo dovere.

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La sala riunioni, all’ultimo piano del grattacielo Mediahole, non spiccava certo per originalità ed avrebbe
avuto probabilmente bisogno di una rimodernata. Era di forma ellittica ed un vecchio DVI, dispositivo di
visualizzazione interattiva, ora in gran parte spento, ne costituiva di fatto l’unica parete. Lo schermo era
interrotto solo dalla porta a scomparsa con il grosso pulsante rosso e dalla grande vetrata sull’immacolata
distesa di neve. Lo spoglio arredamento contemplava il grande tavolo centrale, le sedie, un one-way magic-
hole a forma di cestino e un appendiabiti con due pesanti cappotti.

Silvius sedeva semisdraiato su una delle sedie, con la cravatta slacciata, ma si trovava, visibilmente, in uno
stato d’animo tutt’altro che rilassato:

-Sono stanco Giulius, questo è un impegno gravoso per me, non ho più l’età per fare queste cose.

Giulius, nel raffinato smoking verde si levò gli occhiali sporgendosi su Silvius ed indicò la zona del DVI
accesa:

-Troppo vecchio per quella pollastrella là eh? E’ Sicuro? Guardi che vestitino!

- Dai non scherzare sempre, dovremmo davvero trovare qualcun altro..

-Ma no, è solo nervoso, è il giorno delle sue nozze, è normale!

-Non è questo, non è la prima volta, sii serio, lo sai.

-E’ questo che vuole? Sarò serio allora. Quest’impero ha della necessità diplomatiche ed economiche: ci
sono venti regioni su Monnezza. Venti. Molte sono allo stremo e alcune hanno tentato una rivolta. Grazie
al portale, la loro regione ha assunto un evidente ruolo di leadership e deve rimanere sotto il più stretto
controllo. Non possiamo mettere la testa sotto la sabbia: qui da noi la produzione è proporzionale ai suoi
scarti e se non si dà la possibilità di eliminare ciò che viene prodotto il mercato si saturerà di nuovo e noi
finiremo col culo per terra!

Silvius appallottolò la brutta del suo discorso e la gettò nel one-way magic- hole. Solo una sottile vibrazione
rese percepibile lo smaltimento.

- No, finiamo lì dentro, non per terra: abbiamo venduto l’anima al diavolo per averlo ed è finito tutto, tutto
lì dentro, da questo foglio ai miei processi, dalla spazzatura nelle discariche alle scorie radioattive, dalle
persone in eccesso alle bottiglie di plastica.

- Il one-way magic- hole ha salvato il nostro impero, non c’erano alternative, lo sa: avevamo esigenze
immediate e abbiamo ancora bisogno di denaro.

-Sì, il problema è che non c’è niente di magico, la materia non si crea e non si distrugge… al limite puoi
spedirla in un altro posto..

-O in un altro tempo… Ma non è questo il problema, il problema è che al di là del tunnel è nato un altro
mondo complementare al nostro. Monnezza lo chiamano i giornalisti, ma deve essere gestito, con la sua
religione magic-hole centrica, con il suo governo ombra…

- … e con le sue cazzo di principesse. lo so, ne abbiamo bisogno Giulius, ma questo non vuol dire che debba
anch’io passare i miei giorni in quella pattumiera!

-Si tratterà solo di qualche giorno ogni tanto, anche su Monnezza, tutti sanno che sei un uomo importante e
che hai mille impegni..

-Già troppi impegni, ma adesso è ora di andare, o faremo aspettare la sposa.

Ad un leggero tocco del pulsante una scritta verde “TWO-WAY” sembrò sollevarsi dalla superficie del DVI
mentre Giulius prendeva i cappotti dall’appendiabiti.

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Ḥosnisayyiddi era in cucina, con la tunica ufficiale e lo sguardo severo da pretore a tempo pieno, ma
Karima riconobbe subito la malinconia nascosta dietro l’abituale maschera paterna e corse ad abbracciarlo.

- Allora tesoro, come stai?

Karima sembrò formare un pensiero alternativo per un secondo, ma poi :

-E’ un uomo saggio e affascinante papà, è così simpatico quando racconta le sue storielle col suo buffo
accento terrestre, guarda, ho messo l’anello che mi ha mandato!

- Avrai grandi responsabilità, Karima, e dovrai saper usare al meglio le abbondanti risorse che ci giungono
dalla Terra.

- Già, ora però sto solo morendo di fame: ieri non sono riuscita a mangiare niente e sono a dieta da due
settimane!

Ḥosnisayyiddi, prendendo un vassoietto incelofanato dalla dispensa:

- Vuoi una pera?

- Me la sbucci tu papà?

Il pretore, aperto il pacchetto, pulì due pere mature con un panno e dopo averle divise in quattro spicchi
iniziò a sbucciarle per lei come aveva sempre fatto da quando era bambina, poi porgendole una fetta
matura e zuccherina:

- Assaggia questa principessa, scade tra due giorni. Quest’altra oggi. Non solo si possono mangiare
benissimo, sono squisite… Ma adesso andiamo o ti farò fare tardi!”

Karima entrò nella cappella stringendo la mano del padre, era la sala più ampia e importante del
castello, da bambina ne aveva sempre avuto un misto di paura e rispetto: ogni volta che accadevano
avvenimenti eccezionali c’era sempre qualcuno che usciva di li per dirgli cosa dovevano fare, ma la cosa più
impressionante era decisamente vederli tornare indietro sulla Terra.

Visto il suo ruolo a corte era abituata a vedere oggetti di ogni tipo comparire dai normali one-way magic-
hole: addirittura una volta, ai grandi cantieri Mediahole giù al porto, aveva visto la carcassa di una nave
uscire da uno degli enormi distributori principali, ma solo in quella cappella aveva visto persone ed oggetti
risalire magicamente la corrente del tempo verso la Terra.

L’ambiente, silenzioso, era debolmente illuminato da alte feritoie e dal fascio di raggi laser ad alta potenza
che chiudevano il portale. Due file di panche erano già gremite di invitati e, nel corridoio centrale, grosse
riproduzioni di animali terrestri, ormai da tempo estinti, digrignavano i denti ricordando ai fedeli quanto
poteva essere spietata la natura. Il grande pavimento di plexiglass nero piegava in leggera discesa verso il
portale temporale, dando a tutti la possibilità di assistere indisturbati all’avvenimento.

Quando dalla Terra fu abbassato il fascio di laser l’imponente portale parve fluttuare leggermente sul suo
altare in un sommesso ronzio, quasi che tutto quel legno tempestato di gemme potesse balzare in piedi da
un momento all’altro ed inghiottire l’intero castello.

Entrò prima Giulius, avanzando spedito verso l’officiante, con la ventiquattrore in mano e i due soprabiti
sull’altro braccio. A Silvius, invece, appena uscito dal portale, quasi si piegarono le gambe. L’odore dell’aria,
aspro da togliere il fiato, e il caldo asfissiante lo avevano colpito come un pugno allo stomaco. Cercando di
riacquistare lucidità focalizzò Ḥosnisayyiddi nell’istante in cui lasciava la mano della principessa.

Karima era esattamente quello che sperava: gli occhi di un cerbiatto impaurito e il corpo giovane e perfetto
che aveva visto dal DVI, sorrise compiaciuto e – Mi ci abituerò, anche stavolta – si disse semplicemente.

Lei lo vide entrare ed improvvisamente era vecchio. Non anziano, non saggio, come aveva creduto, ma
semplicemente, umilmente, vecchio. Altrettanto improvvisamente il suo regno e le sue responsabilità
furono avvolte da una densa nebbia, mentre la mente vacillava al pensiero che forse sarebbe dovuta
fuggire e che anzi nemmeno avrebbe dovuto essere li…

Ma…

O era forse era solo quello che passava per la testa di ogni ragazza al momento di salire sull’altare. E poi
tutti sapevano che entrare nel portale sarebbe stato fatale, che solo chi veniva dalla Terra sarebbe potuto
tornarci, eppure chi usciva da quel portale lo chiamava semplicemente two-way magic-hole! Avrebbe solo
voluto essere sola, che tutto si fermasse…

E agì senza pensare, si piegò sulle gambe agili e saltò, sotto lo sguardo attonito degli invitati, verso
l’ingresso del portale, mentre lui, ancora a disagio per il caldo, fissava stordito la figura che spariva.

Fuori dal grattacielo la neve continuava a cadere silenziosa. Karima nemmeno si era accorta del passaggio
e, solo per un istinto di sbattere la porta alle sue spalle, aveva premuto quel grande pulsante rosso
negando il ritorno ai possibili inseguitori. Ma adesso, in ginocchio davanti alla vetrata, con gli occhi grigi
colmi di lacrime e stupore, non sapeva far altro che guardare la neve.

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