29 novembre 2016

Il tempo che serve

Tutte le mie storie cominciano (o finiscono) su un treno o in una stazione. Sono legata ai viaggi come all'aria che respiro.
Danza del ventre è nata su un treno tanti anni fa, potrebbero essere passati 10 anni circa.

Quando facevo la spola tra Torino e Firenze alla fine avevo fatto conoscenza (nonostante si fosse nei nuovi treni veloci che ancora non si chiamavano Frecciaminchia ma qualcosa come Eurostar e la socializzazione era impossibile) con un gruppo di persone che facevano spola anch'esse. Se non tutti i weekend, almeno uno ogni due ci si incontrava.
Sapete quelle conoscenze senza nome? Non ci eravamo presentati, però ci vedevamo sempre: era quasi rassicurante. E se non stavamo nello stesso vagone spesso capitava che si incrociava ai bagni. "Ciao, come va?". "Oh bene grazie, sempre su e giù, eh?".

C'era una ragazza di Torino con il fidanzato a Napoli, quindi faceva la mia stessa tratta. Un giorno spiegava agli altri ragazzi della compagnia di viaggio di come danza del ventre le avesse fatto scoprire dei muscoli che non pensava esistessero.

Allungai il collo e tesi l'orecchio per sentire meglio.

Mi intromisi: "Sono curiosa! Dimmi di più"

Ma se per tante cose reagisco nell'immediato, quelle che coinvolgono la mia timidezza hanno bisogno di tempo, tanto tempo.
Questa è la risposta a chi mi dice che sono impulsiva: non per tutto. Ci sono voluti anni, è dovuta riaffiorare a galla questa idea. Era rimasta sepolta lì, in un angolino del mio cervello.

Ci sono anche decisioni non prive di responsabilità che impiegano tempo a maturare. Ho impiegato 1 anno prima di prendere un camaleonte (che poi sono diventati due), non ero sicura di potermene prendere cura.

Scoprire la pancia (che delirio, non immaginate, mettermi in costume - preferirei stare in una spiaggia naturista), provare a muovermi davanti ad altre persone, inizialmente perfetti sconosciuti è stato uno scoglio enorme che sono stata ben contenta di superare.

Come quando feci quel corso scolastico di improvvisazione teatrale. Fu a tratti doloroso ma mi aiutò da matti.

C'è una cosa che non ho mai fatto ma che mi piacerebbe fare. Un viaggio all'estero. Da sola.
Perché penso vada fatto, perché voglio farlo, perché potrebbe anche essere una bella esperienza fotografica.
Altro post dall'archivio, mai pubblicato.

Dico ieri a mia mamma che venerdì scendo a Firenze. Suo commento: "Ah, ma scendi ancora a Firenze?".
Che abbia qualche strano sospetto? Forse di una delle persone che sono venute su per il concerto dei Placebo, due delle quali erano impegnate l'una con l'altra e la restante apparentemente libera era lui? Sì lui.
Bizzarra cosa ma mia mamma non ha l'intuito mammifero che hanno solitamente le altre femmine della sua specie.
Un giorno porto a casa Pinguino, lo presento come mio collega essendo io abbastanza riservata in famiglia e anche terrorizzata dall'incontro con qualsiasi cosa che si avvicini all'essere un ragazzo/fidanzato/uomo con un membro qualsiasi della mia famiglia. Che poi effettivamente era quasi collega, o no?
Qualche giorno dopo ho l'accortezza di chiedere a mia mamma come lo trova. E lei esce con una frase del genere: "Ahh, ma allora aveva ragione tua sorella a dire che non era solo un collega".
Mia sorella ha più intuito di mia mamma, è abbastanza preoccupante la cosa.
Del resto non c'è da stupirsi se io ho tanto terrore dall'incontrare la famiglia di, o di far incontrare la mia famiglia con.
Le mie esperienze sono terrificanti: Stephen King ha scritto Shining ispirandosi alle mie vicende.
Il mio storico ex prometteva bene: coincidenze bizzarre hanno voluto che suo padre e mio padre fossero migliori amici, un tempo. Suonavano insieme nel gruppo di paese, il mio babbo aveva insegnato al suo babbo a suonare la chitarra. E mia mamma era amica con sua mamma per evidenti motivi di adozione di amicizia. Translitterazione fidanzesca: la ragazza del migliore amico del tuo uomo è una tua amica.
A me pareva tutto facile, ma quella volta sono stata io a essere presentata come amica. Persino quando io e lui oramai convivevamo (abbiamo convissuto 4 anni circa). Un giorno sua mamma vede un anellino al mio dito ed esclama "Ma come luccica questo anello, ma allora fate sul serio". Io purtroppo non so dire bugie. Sono allergica. Balbetto, divento rossa. Invece di dire una bugia posso mimare conati di vomito e scappare in bagno, quello sì. Ma quando mi fanno una domanda non so non rispondere, e nel 99% dei casi dico la verità. Così quando mi ha chiesto "Ma vivete insieme?" io ho temporeggiato due secondi e poi ho detto "Bhe, ogni tanto sto da lui". "Ogni tanto quanto?". Io: "Tutti i giorni".
Un'idiota.
Questa cosa di non essere in grado di non rispondere e di rispondere col vero mi ha messo in difficoltà parecchie volte, ricordandomi spesso che una bugia a volte aiuta. A volte.
Ad esempio se vai a ballare e qualche maniaco ti strattona verso di sè prendendoti per un braccio, non è obbligatorio rispondere alla sua domanda "Come ti chiami?". Idem se un tossico sul pullman, mentre torni a casa dalle superiori, ti chiede che facoltà fai e tu cerchi di spiegargli che fai ancora le superiori e lui insiste "Sì, ma che facoltà?". Fiato sprecato.
Riesco a raccontare balle solo a mia mamma, ma è questione di sopravvivenza. Altrimenti non si vive, sul serio. Lei è molto ansiogena ed eccessivamente preoccupata per qualsiasi cosa. Se mi chiama e il mio telefono non prende, quasi sicuramente prova a richiamarmi almeno 100 volte nei secondi successivi. Se poi, appena il mio telefono riprende la linea, provo a richiamarla, sono quasi certa che risponde mezzo microsecondo dopo lo squillo quasi piangendo e dicendo "Dov'eri? E' mezz'ora che provo a chiamarti".
La mia fortuna è appunto quella che lei almeno ha visto Roccio. E quindi questo le basta per essere più o meno tranquilla.


Scordando ogni cosa appena scritta e facendo pazzie, come al solito.
Perché ormai lo sanno tutti che sono matta, e appena avrò abbastanza soldi per andare da una psicoterapeuta ve lo dimostrerò.
Ricetta in mano e prozac in gola.

06 novembre 2016

Quando cominciai a essere una ragazza dai capelli strani

Ci sono un paio di foto che hanno ricordi immensi. Un po' come quando guardi le foto dei tuoi genitori e ti sembrano così innamorati e felici, e poi li guardi dal vivo e hanno perso più colore delle foto, anche se sono in bianco e nero e ti chiedi come possa essere possibile. Ci sono dei momenti in cui ripensi a cose accadute e vorresti segnartele come meglio puoi, anche se tante cose sono passate, anche se i ricordi sfumano nel buio, filmati con transizioni in nero assoluto, dove la luce non arriva.
Filmati che ti ricordano un po'.
Quando hai 13 anni hai pochissime preoccupazioni nella vita, eppure ti senti addosso i problemi del mondo. Quando cresci ed effettivamente riguardi al passato pensi di aver gettato via momenti bellissimi, momenti in cui forse potevi anche godere soltanto delle piccole fortune che ogni giorno ti riservava.
Io ero un brutto anatroccolo. Lo sono ancora, ma ho imparato a valorizzare due o tre cose, quelle giuste, quelle che spiccano. E in un certo senso così brutto anatroccolo non sono più. Magari non sono il cigno nero della favola, magari un'elegante gazza, ecco.
A 13 anni il mio unico problema era di non farmi prendere in giro dai ragazzi. Mi riusciva poco, a dirla tutta, con quei capelli lunghi fino al sedere ma scompigliati e spettinati. Gli occhiali tondi che mi rendevano più simile a una tartaruga di terra e gli anfibi ai piedi. A 13 anni sono queste le cose che contano, vorresti solo spiccare e non essere come tutti gli altri.
A me, a 13 anni, è stato diagnosticato un linfoma.
Ai tempi io e la mia amica Elisa dormivamo spesso una a casa dell'altra. Quel sabato dormii io da lei. Non riuscivo per nulla a prendere sonno e mentre mi giravo e rigiravo sperando di abbandonarmi ai miei sogni lo scoprii. Un ringonfiamento sul collo. Capirai, ho pensato, sarà che mi viene sempre mal di gola, non sarà nulla. Ma come la lingua batte dove il dente duole, la mia mano finiva sempre sopra la clavicola. Sembrava un rigonfiamento bello grosso, mannaggia. Il giorno dopo mi guardai allo specchio, era anche piuttosto visibile. Sì, bisognava farci caso, bisognava sapere che era lì, immobile e tondo, ma c'era. Il mio pediatra mi disse che sarei dovuta andare a fare delle analisi del sangue.
Per chi non ha paura non è un dramma, ma chi la paura ce l'ha mi capisce al volo. Aghi. Prelievi.
Non avevo ancora mai fatto un prelievo, ed ero più che paralizzata all'idea.
All'ospedale infantile mi fecero fare, oltre al prelievo che praticamente non sentii, delle lastre al torace e una visita generica. Riflettemmo sul fatto che effettivamente poco prima di notare il rigonfiamento mi venne la febbre. Una febbre che nemmeno la tachipirina riusciva a mandare via.
Ma mi rimandarono comunque a casa con pasticche grosse e rosse che mi avrebbero fatto passare ogni cosa.
Il pomeriggio stesso invece chiamarono. Mi dissero che dalle lastre risultava qualcosa ed era meglio ricoverarmi. Io stavo piombando in una realtà che non conoscevo assolutamente, e che non volevo conoscere. Non riuscivo a prendere la cosa con spirito, anzi, la presi piuttosto maluccio, convinta che un grosso male stava aspettandomi da qualche parte. Carla, piccola e catastrofica.
Durante il ricovero mi fecero la biopsia a quello che si rivelò essere un linfonodo e un prelievo del midollo. Mia sorella una sera chiamò quasi piangendo. Mi chiese se quello che avevo era un linfonodo o un linfoma. Chiesi al dottore, ma lui rispose con un "Perché me lo chiedi?". A mie successive insistenze disse che si trattava di linfonodi.
A casa controllai la differenza. Cercai sull'enciclopedia medica. Il linfoma è un tumore maligno del sistema linfatico.

Qualche giorno dopo mi chiamarono dall'ospedale. Dovevo concordare con loro la terapia e parlare di ciò che avevo. Il dottore mi parlò come si parla ai bimbi, forse perché lo ero. Forse ero solo una bambina. Ma mi sentivo male perché capivo. Capivo ogni parola. O meglio, desideravo più chiarezza.
Fu così che "il grosso sasso davanti ai polmoni" che rischiava di "pesarmi sul cuore e sui polmoni se non curato" divenne, dopo altre mie insistenze, un linfoma. Il maledetto si era insidiato davanti ai polmoni, nel mediastino. Era entrato in circolo attraverso il sistema linfatico e aveva deciso di costruirsi un'altra stazione spaziale sul mio collo. In sede sovraclaveare destra.
Ora, entri all'ospedale convinto di dover prendere qualche antibiotico e ti viene detto che invece dovrai iniziare una chemioterapia. Fa molta differenza.
Nessuno mi disse esattamente cosa fosse. Ma mi documentai fino alla nausea. Non c'era internet e passavo molto tempo in biblioteca. Volevo capire che tipo di veleni avessero intenzione di iniettarmi, volevo capire cosa mi avrebbero provocato. Volevo sapere la percentuale di risoluzione totale della malattia. Volevo capire perché io.
Non ci sono risposte a queste cose. I veleni cambiano a seconda del tuo stadio, le reazioni cambiano da persona a persona, non esiste una risoluzione totale, non esiste guarigione ma solo sopravvivenza. Non si può guarire da una malattia di cui non si conoscono le cause.
Non potevo sapere perché io.
Mi trovavo d'un tratto ad affrontare un mostro più grande di me. Quando sei appena una ragazzina ma puoi capire tutto, capisci cosa significa che forse ti cadranno i capelli, capisci che cosa significa che forse dovrai passare periodi di isolamento, perché i tuoi globuli bianchi verranno avvelenati dalle stesse sostanze che ti salveranno, capisci un sacco di cose ma non le puoi accettare.
Così ti tagli un po' i capelli, quei capelli lunghi fino al sedere li tagli alle spalle, cominci ad assentarti da scuola. Le terapie sono in day hospital, entri al mattino alle 8 ed esci alle 12, ma sei distrutta. Vomiti fino allo spasimo i succhi gastrici e ti ci vogliono circa 3 giorni per rimetterti. Poi dopo due settimane sei ancora lì, e riprendi da capo. 9 mesi di vomito, e prelievi, e flebo, e trasfusioni, e aferesi. E tu sei lì, con tua mamma che ti guarda e che si chiede anche lei perché è capitata proprio a te questa cosa. Ma a guardarsi attorno sembra di stare in un campo di guerra. Tutti bambini. Tutti malati. Allora cominci a chiederti davvero: perché noi? Perché si deve stare male?
Attacchi e cominci, smetti e riparti. Cadi e ti rialzi. Ogni giorno. E ti rendi conto di stare male ma non vuoi ammetterlo. A volte cadi nel vittimismo, a volte nell'eroismo. A volte ti senti solo male perché sei ben consapevole che le persone che ti amano soffrono molto di più a vederti stare male di quanto possa soffrire tu.
Ma io, io sono un'eroina. E trovai abilmente il modo di farmi coccolare dai miei amici. Loro che pazientemente mi stavano dietro, che asciugavano le mie lacrime, che non mi facevano mai sentire diversa. Mai.
Se è vero che gli amici si vedono nel momento del bisogno, io sono stata molto fortunata. E quando i veri amici ci sono, si festeggia la vittoria. Il 4 gennaio 1995 io festeggiai la mia vittoria. L'ultima chemio. Avevo anche fatto la radioterapia, che come regalo mi ha lasciato l'ipotiroidismo e spero null'altro. Chemioterapia. MOPP/ABVD. Le sigle dei veleni.

E gli anni passano, sei il ritratto della gioia. Fai fatica a staccarti dall'ospedale, hai passato il primo quadrimestre del liceo scientifico all'ospedale, fai fatica a stare dietro ai tuoi compagni più svegli. Non riesci a studiare ma sai di aver lottato per qualcosa di più importante e sorridi a dispetto di tutto. E sei felice. E non ti interessa null'altro.

Passa ancora un anno e ogni tanto ti capita, ogni tanto, di passare la mano sul collo. Cercare, avere paura. Può capitare di sentire una pallina. Allora chiami l'ospedale e loro ti rassicurano sempre. Hai avuto mal di gola Carla. E' normale ti si gonfino i linfonodi, è la loro funzione.
E torni a casa tranquilla. Un altro giorno di sole.

E poi ancora, altro tocco, altro gonfiore.
Ma questa volta nessun rimando a casa, questa volta un'equipe di medici ti sta intorno e, a turno, palpano quella pallina. E via, tac, radiografia, scintigrafia, analisi, biopsia, prelievo midollo. Questa volta la tua biopsia viene spedita a Bologna e tu hai ancora paura.
E ti rendi conto che questa volta non è come le precedenti. Questa potrebbe essere una cosa seria. Allora decidi di tingerti i capelli strani, tanto forse cadranno. Decidi di andare in vacanza e non pensarci, perché i dottori ti hanno annunciato che al tuo ritorno ci sarà la chemioterapia ad aspettarti.
Ancora. Linfoma di Hodgkin.

Colpa del tassista

[post ripescato dalle bozze del 2008 credo]

Sabato sera siamo andati in un pub triste triste. Ma era sabato o venerdì? Non ricordo. Il pub a dirla tutta è molto bello, è grande, tutto di legno. Il classico pub dove si va tra amici a chiacchierare. E’ totalmente vuoto, quindi c’è vasta scelta di tavoli. E’ una cosa non da poco.
Peccato che il gestore ci mette un bel po’ a fare i cocktail che lasciano un po’ a desiderare: ma se si ha lo stomaco forte va bene. E poi è un po’ buio, la luce è data da piccole abatjour con ragnatele annesse, inserite tra un tavolo e l’altro. E poi è freddo, c’erano le finestre socchiuse.
Ma per fare 4 chiacchiere non c’è niente di meglio.
Ieri e l’altroieri sono stata a Torino per delle visite. Tutti mi dicono “Ma perché ti sbatti fino a lì per farti visitare che qui c’è Careggi blablabla?”. Risposta: “Quando trovi un medico di cui ti fidi non lo lasci così facilmente”.
Parto l’altroieri da Firenze Rifredi, nemmeno a dirlo, il treno ritarda di mezz’ora. Certe cose non cambiano proprio mai. Arrivo insomma già abbastanza tardino, visto e considerato che un folle seduto accanto a me aveva sul tavolino la foto (ritagliata da un giornale, in bianco e nero) di Sarah Miller e ogni tanto chiacchierava con la foto. Proprio così. Appena c’era un po’ di baccano lui guardava la foto, rideva, e borbottava qualcosa. Io non so, cercavo solo di dormire, ero un po’ cotta perché mi ero svegliata abbastanza presto (povero Roccio che doveva anche andare al lavoro). Ogni tanto mi voltavo verso il signore e lui smetteva: assomigliava a Robert De Niro, la versione italiana con i capelli bianchi e tanta pancetta.
Arrivata a casa di mia mamma mangio velocemente qualcosa e porto a spasso Poldino, intanto un forte mal di testa dovuto al troppo sonno sul treno mi devasta. Mi doccio veloce, mi sistemo alla meno peggio e vado in centro. Magari due passi mi fanno passare il male.
Scopro che in piazza Castello hanno aperto una nuova libreria, molto bella. Qualcosa come “libreria.coop” o “coop.libreria”. Ci faccio un giro e trovo un sacco di libri che vorrei comprare. Ho la mania compulsiva dei libri. Poi non riesco a stare dietro agli acquisti e si accumulano nella libreria. Quanti libri belli. Quanta carta stampata, quanti bei colori di copertine, quante cose su cui vorrei documentarmi.
Meglio uscire. Esco e mi avvio verso la fnac, ma anche lì c’è la libreria. Mi riperdo tra i libri, cerco testi sul Madagascar (all’altra libreria ne avevano di più). Mi chiedo cosa sarebbe meglio se Madagascar o Australia, sono due mete ambitissime, tutta natura, tante bestie, tanta avventura. Rimando la decisione e corro in farmacia a prendere qualcosa per il mal di testa che intanto è aumentato.
Torno a casa di mia mamma mangio qualcosa (si era ormai fatta ora di cena) e prendo la pastiglia. Il giorno dopo ho la visita, anzi le analisi, mi toccherà passare tutta la mattinata in ospedale. E poi devo fare il prelievo, e come al solito ho paura del prelievo.
Per andare all’ospedale ci sono due opzioni: prendere il bus e svegliarmi parecchio prima o prendere il taxi e svegliarmi a un orario decente. Opto per la pigrizia e la spesa allucinante. Il taxista infatti fa strade inesplorate e mi fa spendere circa 21 euro, e mi saluta con “Auguri”. Tutti sanno che non si fanno gli auguri in questi casi ma bisogna dire “In bocca al lupo” mannaggia a te taxista.
Mi tocco le palle che non ho, ma dato che sto decidendo di diventare superstiziosa quasi quasi le espianto a Roccio e le impianto a me: dato che in salute non vado fortissima almeno ogni volta che vado in ospedale e qualcuno prova a farmi gli auguri mi tocco le pallediRoccio e magari la scampo.
Vado al bancone di legno del C.O.E.S. detto altrimenti Centro Onco Ematologico Subalpino, però lì mi mandano a fare la coda: che strano, per gli ex pazienti del Regina Margherita di solito consegnano direttamente loro le impegnative fatte dall’ospedale. Però non dico nulla, in un anno cambiano tante cose,anche le procedure.
Quindi mi accodo e vado a fare il prelievo. Entro come sempre terrorizzata. L’infermiera è un donnino che parla come la Littizzetto (uh come lo sento l’accento piemontese adesso. Mi sembra così alienante) e urla come una foca in calore. Mi vede, penso, tremolante, mi rassicura dicendo che ha lavorato tot anni in Ematologia al Regina Margherita, l’ospedale infantile, e difatti dopo tanti anni mi becca al primo colpo la vena e non mi fa nemmeno male, visto e considerato che mi ha bucato sul dorso della mano, zona abbastanza sensibile. Non deve nemmeno farmi due buchi perché ha azzeccato tutto, io penso checulocheho e vado a mettermi in coda per l’ecografia alla tiroide.
Il dottore che mi fa l’ecografia era una volta un assistente. Mi aveva visitata assieme al mio endocrinologo circa 3 anni fa. Lo avevo notato perché era un bel ragazzotto alla Tom Cruise, lampadato ed aitante. Il mio antitipo ma medico, quindi comunque da notare.
Lo rivedo però più stanco, non più lampadato e con le occhiaie. Era tornato dalla notte e l’ultima visita del suo turno ero io. Era davvero a pezzi.
Mi dice di nuovo che la tiroide probabilmente è da togliere. Mi tocco le pallediRoccio e spero che si possa rimandare all’infinito.
Intanto arriva il mio endocrinologo, gli chiedo come mai al bancone di legno non mi hanno consegnato l’impegnativa. Parte arrabbiato a fare il cazziatone alla signora che avrebbe dovuto farlo e torna con la mia impegnativa.
Mi rimane solo quella che credevo essere una mammografia ma si rivela (come appunta l’endocrinologo) per ora “solo” un’ecografia al seno.
Vado a fare colazione che ho una fame boia e spero mi facciano passare prima dato che sono le 10 e ho l’appuntamento alle 12.40. Ma arrivata in reparto radiologia capisco che non c’è speranza. C’è gente che aspetta da ore ed era prenotata ore prima. Il mio problema è il treno. Devo prendere il treno ma prima devo tornare a casa di mia mamma a recuperare lo zaino. Questo vuol dire che per prendere in tempo il treno delle 17 devo uscire dall’ospedale alle 14. Mi ci vuole un’ora e mezza per andare a casa di mia mamma dall’ospedale e un’altra ora per tornare in stazione. 15 minuti per mangiucchiare qualcosa ce le vogliamo mettere?
Insomma si fanno le 13 e sono ancora lì. Meno male ho il libro sulla PNL che tralaltro ha proprietà soporifere su di me, mi basta leggerne una pagina e svengo collassata, come in catalessi, oberata da tanti termini e diciture. Per dirla breve la gente comincia a sfavarsi e partono le polemiche.
Così ci spostano in un altro reparto che fa la stessa cosa. Chiedo a una signora per quando era prenotata. Mi dice che era prenotata per le 10 (sono le 13.20), perdo speranze di passare perché le dico che sono prenotata per le12.40 ma, miracolo, mi chiamano. Quindi la signora si sfava perché ora sa che la sua prenotazione veniva prima, però la dottoressa dice che mi sono registrata prima di lei e quindi non ci sono cazzi. La ringrazio e le spiego che ho anche un treno da prendere, quindi attacca a ecografare. Mi spoglio, mi sdraio, guarda bene, riguarda bene e parla con un collega. Parla di nodulini. Mi fanno rivestire e mi spostano al reparto dov’ero prima per farmi fare una mammografia. Ma come mammografia, non dovevo fare solo un’ecografia? Comprendo bene che c’è qualcosa che non va.
La mammografia, per chi ha poche tette come me, è una tortura. Devono schiacciarti il seno tra due ripiani e il medico ce la mette tutta, me le tira, me le palpa, me le strizza. Un male cane insomma. Poi le rifà più volte perché non gli riesce: col senone (come direbbe mia mamma) sarebbe tutto più semplice ma un senino non ha mammografia che tenga. Mi chiedono di rivestirmi e mi fanno rifare un’altra ecografia con una dottoressa con più esperienza.
Parla di linfonodi e di gruppi calcificati, io non ci capisco molto, ma continuo a capire solo una cosa: che qualcosa non va.
Mi chiedono di rivestirmi dopo aver fatto un segno sul seno destro con un pennarello indelebile nero. Mi piazzano un cerotto con una sferetta incollata all’altezza del puntino disegnato. Mi fanno fare un’altra mammografia ma i segni non coincidono. Mi chiedono ancora di vestirmi e il dottore mi spiega che ci sono un gruppo di formazioni calcificate e un nodulino ma non sanno altro. Fare un’agoaspirato non si può, troppo piccino. Vogliono farmi una biopsia chirurgica.
L’11 saremo di nuovo a Torino per una visita dall’endocrinologo ci dirà lui poi, guardando gli esami, cosa fare. Certo, ho paura.
Però c’è Roccio con me (che dolce, mi ha regalato un fiore di girasole), e anche se un piantino me lo sono fatta ieri, non posso davvero lamentarmi di niente.
E poi, lo so bene, la colpa è tutta del taxista.
[bozza del 30/08/2007 ripescata oggi]

Ieri mentre ero in chiamata mi si avvicina una donnina mai vista: era l'ora della pausa quindi fremevo per alzarmi un po', quand'ecco che l'anonima veneziana mi chiama per nome e si presenta. Mi dice che è dell'ufficio del personale e voleva parlare con me delle mie dimissioni, quindi oggi mi tocca andare mezz'ora prima per fare un colloquio su questo.
Sapevo che per entrare bisognava fare il colloquio, non per uscire da un'azienda.

In ogni caso accetto tutto, anche se ammetto che andare in una nuova azienda un po' mi spaventa. Penso sia normale.

Persino entrata qui ero paralizzata: eppure l'esperienza del call center è abbastanza comune e non servono competenze specifiche. Ma ricordo la prima chiamata che abbiamo fatto al corso con la nostra tutor accanto che ci indicava col dito cosa fare.

Ieri poche chiamate ma sono stata richiamata all'ordine perché, nei momenti liberi da chiamata, leggevo (le ultime pagine de La compagnia dei celestini di Benni).

Posso capire che una persona al lavoro non possa farsi i cazzucci suoi però questo è un lavoro dove la produttività non cala se leggo quando non ho nulla da fare (perché non posso fare null'altro). In un lavoro qualsiasi ti viene chiesta qualsiasi cosa se è un momento in cui non stai davvero lavorando.
Sorvoliamo il fatto che sono un mago a trovare i numeri di telefono.
Ieri mi ha chiamato un tizio che cercava un negozio di usato o a Cinisello Balsamo o a Sesto San Giovanni, non ricordava bene. Ma non solo non ricordava bene la località, non sapeva nemmeno il nome, e nemmeno la via. Si ricordava solo che era all'uscita (o ingresso) della tangenziale e si trovava su una grossa strada. Ovviamente in categoria Usato - compravendita non esisteva nessun negozio in nessuna delle due località. Allora ho chiamato un negozio a caso a Sesto San Giovanni chiedendo se conoscevano un grosso negozio di usato che stava su una grossa strada. Mi hanno detto l'indirizzo ma non il nome e anche loro non erano sicuri sulla località (si vede che era un negozio di confine).
Trovo la via e chiamo un altro negozio a caso su quella via, a Sesto San Giovanni, e finalmente mi dicono il nome del negozio che in realtà si trova a Cinisello Balsamo. Insomma, so' maca.
Incantesimi telefonici a parte penso proprio che il tabù non sia leggere, ma non fare un cazzo.

In ogni posto di lavoro non fare un cazzo è (per il capo) eticamente sbagliato.
Al primo call center dove ho lavorato non stare al telefono era cazzeggiare.
Al canile cazzeggiare voleva dire stare seduti.
Alla casa editrice cazzeggiare voleva dire stare in piedi oppure al telefono.
All'azienda informatica cazzeggiare era non stare al computer.
E qui, di nuovo, è non stare al telefono.

Per adattarsi a un nuovo lavoro l'importante è capire cosa si intende per cazzeggio. Il resto è una strada in discesa.

Di brevi ma fantastici incontri

[Post trovato tra le bozze di almeno 3-4 anni fa e pubblicato ora]

Sabato ho lavorato 10 ore. Sono uscita distrutta, con una stanchezza addosso che non si spiega. Mi sono detta che lo scotto da pagare per lavorare 6 ore al giorno (poco meno di 8) è davvero troppo e la cosa non mi piace affatto.
Tantopiù che sabato c'era a Bologna Chiarina, mia amica ed ex collega di Firenze, per un corso che segue un weekend al mese direttamente a Bologna. Per carità anche lei era impegnata fino a sera, ma mi dava noia l'idea di non essere per niente in forma. Così alle 20 Fry passa a prendermi e andiamo di volata verso la stazione dove la mia amica aveva la stanza d'albergo (nel quale teneva il corso). Chiarina è stanca, si vede, siamo in due. In tre contando Fry che, seppur riposato dal sabato, aveva addosso una settimana non proprio leggera.
Ma è stato davvero bello, non ci vedevamo da tantissimo tempo e abbiamo avuto modo di chiacchierare, fare quattro passi, vedere un po' di Bologna. Anche per noi che ultimamente non uscivamo mai.
Sotto la luce della serata bolognese ridiamo quando Chiarina mi chiede in silenzio "Ma si sente che sono di Firenze?" togliendo le ti e le ci e unendo di e firenze in un toscanissimo "diffirenze".

Ma a mezzanotte eravamo distrutti tutti quanti. A me il sabato così mi ha devastata. E ci abbracciamo e ci salutiamo "alla prossima" ma il 9/3 sarò a Torino e così dovremo saltare ancora, ma il bello delle vere amicizie è che non conta quanto ci si sente o quanto ci si vede. Si è, per l'altro, quando ha bisogno. E quando non ha bisogno ha la certezza che se avesse bisogno ci sarebbe.

Ho cominciato questo post proprio due sabati fa, quando tutto è accaduto. Ora non ricordo cosa è successo in queste settimane di buio. So che lunedì ho ricominciato a lavorare ma è come se non avessi mai staccato. Ho passato una settimana lunghissima.
La seconda settimana, ovvero questa, è quella della pausa lunga. Ho ripreso pian pianino a studiare tedesco dopo quasi due settimane di stacco. Una mia (carinissima e dolcissima) collega si è ricordata di portarmi i suoi libri di tedesco delle superiori che sono ancora imbustati e non so quando avrò tempo di aprirli. C'è stata una grossa nevicata in questi giorni ma non ricordo quando. Abbiamo prenotato un viaggio per Berlino dal 7 al 13 Maggio e progettiamo un secondo viaggio on the road (stile quello che abbiamo fatto in Corsica) per Luglio. Stiamo stringendo le chiappe ma siamo riusciti a mettere da parte due soldini che ci permetteranno di fare questi viaggetti senza troppi pensieri.

Oggi ho avuto un colloquio, ma non voglio dirvi nulla. Solo che è andato bene e che non è stato un vero e proprio colloquio.

Da domani cambierò postazione e sarò vicino alla responsabile. Sono sicura che lei sarà tranquillissima, ma lo stress psicologico di avere il capo quasi in braccio sarà palpabile. Quindi passeranno almeno 2 mesi (che è il tempo medio che ha di cambiare le postazioni) in cui sarò lagnosa e intrattabile. Per la gioia di Fry.

Ho rinnovato il viola ai capelli perché alcune ciocche davano sul bianco.
Prima

Dopo

Confesso: questi capelli mi piacciono da matti. Spero di non trovarmi costretta a tingerli di un cosiddetto colore normale perché sono anche questo. E mi piace essere così.

Seguirà un post molto più serio. Ma solo quando avrò voglia di scriverlo.