30 ottobre 2016

La mia memoria (corta), la mia nuova Mantova

Chissà quanti post doppi ci sono su questo blog: ho una memoria tremenda. Ho però una memoria abbastanza visiva: mi ricordo i volti, le situazioni, ma non riesco a collegare le situazioni con le date o i volti con i nomi. A volte cancello delle cose e il mio cervellino le sostituisce con altre.
Sarei un pessimo testimone durante un processo.
Al lavoro mi ha sempre dato problemi questa cosa:
"Te l'ho spiegato un mese fa!"
"Ma sei sicura?"

E qui arriviamo al nocciolo della situazione. I supporti di memoria. Non potendo usufruire di un HD esterno dove poter andare a salvare i dati in eccesso, lascio che lo facciano per me altre cose.
Il supporto principale è per me la scrittura. Anche questo blog. Quando non ricordo quando è successa una cosa la cerco qui. Fino a poco tempo fa al mio (ex) lavoro ci era vietato prendere appunti per una questione di paura (terrore) di furto di dati. Era la mia fine.

Ricordate Twin Peaks? Quando lo davano ero piccola: capivo la metà delle cose e me ne sono accorta riguardandolo poco tempo fa.
Amo Lynch perché nei suoi film non si capisce un cazzo. Quindi ognuno ha titolo per dire quello che gli pare tipo "Secondo me in Mulholland Drive la seconda parte è l'incubo della prima e la scatolina è una metafora della scatola di fagioli che aveva mangiato il giorno prima e che le era risultata un po' indigesta".
Nein, amo Lynch perché amo i sogni e il suo mondo onirico mi affascina da morire.
Comunque in Twin Peaks il protagonista aveva un registratore. Ohibò, non appena l'ho visto ho capito che dovevo possederlo. Fu così che i miei cedettero al mio capriccio e mi presero un piccolo registratore a microcassette. Lo portavo ovunque. Nelle gite parrocchiali, nelle gite di classe, all'oratorio, forse anche a scuola (non ricordo) e lo usavo per studiare.
Non avendo una cameretta mi chiudevo nel cesso, leggevo le pagine del sussidiario e riascoltavo la mia voce tante volte da farmi venire la nausea, finché non riuscivo a far entrare le nozioni nella mia testolina da criceto. Il mio primo supporto alla memoria. Erano le elementari.

Ovviamente non è durata molto, anche se nelle vecchie cassettine si possono ascoltare ancora canzoni cantate in gruppo, barzellette sconce raccontate dagli amichetti, stralci di noiosissime nozioni.
Il supporto che più ho amato e che ancora adesso è con me è la macchina forografica.
Un giorno mi regalarono una Ricoh automatica. Una di quelle macchinette che scatti e non devi fare altro, con flash incorporato. Una scatola (nera) magica.
Ben presto molti istanti furono immortalati. Capodanni, natali, compleanni, grigliate, follie tra amici (chissà dove ha messo il mio caro amico - ora fotografo - una foto di me quindicenne in cui indosso i suoi boxer, ho le pinne ai piedi e il collare con le borchie al collo, seduta sul water chiuso mentre faccio finta di bere da una bottiglia qualcosa di imprecisato e coi capelli acconciati con una cresta imperfetta). Il mio nuovo supporto: immagini che potevo codificare. Non importava quando erano accadute quelle cose, c'erano state e non erano una fantasia della mia mente.
Ho cantato in un gruppo metal, ho le foto a dimostrarlo. Stavo insieme al bassista.
Giravo con dei ragazzotti punk, sìsì check.
Una volta avevo i capelli lunghi fino al sedere.
La mia migliore amica aveva una bellissima casa in campagna.

Con il digitale è stato diverso. La compatta era sempre con me. Processionarie in fila: click. Cartello strano: click. Sbronza allucinante: click (un po' mossa, eh?)

Sono sul treno per Firenze e sto procedendo a zig zag senza una direzione, vediamo dove arriviamo.
Oddio IO procedo a zig zag, non il treno. Ci tengo a specificare.

Comunque ho abbandonato la compatta per la mia fedelissima Canon 7d.

Mantova: centro storico patrimonio Unesco.
Concorso.
Andiamo a Mantova.

Ho un vago ricordo di Mantova. Palazzo Te e i suoi disegni, la camera degli sposi del Mantegna. Le vie acciottolate (che fanno urlare porca***onna a ogni passo) piccole.
Un mondo sospeso tra passato remoto e presente.

Con me la fedelissima T, testimone anche al Monte Sacro di Varese. Decidiamo di vederci al mattino per fare colazione in via borgovico e poi andare alla stazione con calma.
Mentre usciamo dal bar capiamo che la situazione di quella giornata non sarebbe stata normale. Un vecchino, con i tubicini dell'ossigeno al naso, stava cascando in terra appena ci ha viste. Ripresosi all'ultimo ha esclamato: "Non mi spaventate eh?".
Io e T ci guardiamo, il vecchino semimorente riprende la strada come se nulla fosse accaduto e rimaniamo in quell'attimo in cui ci chiediamo se effettivamente abbiamo sentito bene o se è stato tutto frutto della nostra immaginazione. Facciamo spallucce e andiamo in stazione.
Cömo - Milano Centrale
Milano Centrale - Mantova.
Lungo il tragitto salgono sul treno due poliziotti. Il secondo non riesco a inquadrarlo, non riuscivo a staccare gli occhi di dosso a quello che parlava con noi. GENTILISSIMO.
"Ragazze, cortesemente, posso chiedervi i documenti?"
Eh, certo, una mezza tossica e un'extracomunitaria, avrà pensato, ho fatto bingo.
Consegno i miei documenti, T il suo visto. Scaduto.
"Questo è scaduto"
"Eh sì sto aspettando che mi arrivino i documenti"
"Ma ha già avviato le pratiche?"
Quando T è nervosa ride. Comincia a ridere.
"No non ancora"
Il poliziotto fa una smorfia tra il compiaciuto e l'indeciso.
T continua "Sono sposata, sto aspettando i documenti"
"Ahhh va bene"
Altra veloce occhiata e se ne vanno.
Poco prima T mi aveva confessato di sentirsi a disagio quando c'erano poliziotti in giro perché sa che stanno cercando qualcuno e lei non ha ancora i documenti che però dovrebbero essere già suoi da tempo. Lentezze sudamericane.
Arriviamo a Mantova e, tempo due minuti, ci perdiamo. Dopo ovviamente aver incrociato un intero scuolabus con bambini appiccicati ai vetri che ci salutano e dei ragazzini che esclamano "Che cazzo hai fatto ai capelli?".
Google maps non ha nessun potere sul nostro istinto malevolo di orientamento. Gira a destra, gira a sinistra, e nulla. Il coso per mangiare tramezzini non c'è. T chiede informazioni ma una signora le risponde male.
Meno male da qui in avanti i Mantovani si dimostreranno persino eccessivamente gentili. Troviamo appunto di che mangiare e proprio i ragazzotti che ci servono ci danno qualche indicazione spontanea su Mantova. Dove prendere le mappe, cosa vedere, ecc.

Io uso il mio nuovo (vecchio) obiettivo Helios e mettere a fuoco è un'impresa.

Ma non siamo qui per parlar di foto. Trottiamo come delle pazze per cercare di imprimere qualcosa di interessante ma  riesco a ricavarne poco. Bici. Foglie autunnali. Le solite cazzo di cose.

Con un po' di stanchezza, e dopo aver comprato della sbrisolona farcita da portare agli amici, arriviamo a Palazzo Te. Stormi di volatili in cielo.
Sembra di essere dentro una sceneggiatura del film di Hitchcock.

Presto o tardi sarebbe capitato.
Splat.
Sulla mia testa e sul cappotto e lo zaino di T.

Pulendoci alla meglio andiamo in stazione dove compriamo i biglietti per Cömo in biglietteria. Non quella automatica, c'era proprio l'omino. Ho vaghi ricordi di questa cosa, forse l'ultima volta che è successo è stato nel 2008. Ricordo sì, parlai con uno di questi omini mitologici, metà uomo e metà sedia, per un biglietto per Firenze.

Comunque T mi guarda e mi chiede: "Dobbiamo timbrarlo?"
"Ma va, ora anche i regionali hanno degli orari, figurati tranquilla.

Saliamo sul treno, controllore: "Questo doveva essere obliterato lo sapete?"
"Colpa mia, ero convinta che non si dovesse"
"Quindi la paghi tu la contravvenzione?"
Ride, gli chiedo di chiudere un occhio. "Ma per voi chiudo tutti e due gli occhi, si vede che avete fatto il biglietto oggi, tranquille"
Fiù

Salgono 3 capotreni/controllori Trenord. Uno con un accento del sud molto forte.
Attaccano bottone.
Stavo quasi per dire "Almeno voi no, ve prego" quando mi sono trattenuta. Alla fine siamo state al gioco, non hanno chiesto il numero o simili, cercavano solo di chiacchierare.
È una cosa che alla fine capisci al volo, dove vogliono andare a parare le persone che hai di fronte. Soprattutto dopo centinaia di approcci (anche senza alcun doppio fine, ovvio). All'inizio sei sperduto, specialmente quando ti insegnano che le persone cercano sempre di avere un ritorno e ci metti anni per fidarti nuovamente delle persone.

La nostra giornata è stata questa, la mia vita è quasi sempre questa. Una giornata lunghissima piena di avventure che continuerà nel prossimo post di Firenze.
Stay Tuned.

24 ottobre 2016

Il vaso di Pandora

Quando ero piccola lessi un racconto illustrato sul vaso di Pandora. Mi rimase impresso.
Siamo tutti dei vasi di Pandora che, una volta scoperchiati, non possono più essere richiusi.

Oggi andrò a ritirare il mio obiettivo ordinato su ebay. È, vintage, è russo, sì, è un Helios.

Dopo aver visto gli scatti del mio compagno di classe russo - di solito chiamato semplicemente "compagno russo" e le immagini nel mio cervello si sprecano - mi sono decisa. Un amico fotografo mi ha detto la marca dell'obiettivo che ha "quello sfuocato molto particolare" e il compagno russo l'ha confermato così, dopo qualche consiglio su quale modello prendere mi sono decisa.

Per ben 30 euro mi sono aggiudicata un obiettivo che potrebbe regalarmi delle gioie.

Posso anche dire che le foto fatte dal mio compagno russo alla sottoscritta hanno qualcosa di decente, alcune sono molto belle; l'abilità del fotografo si vede. Anche perché mi ritengo un soggetto infotografabile: in genere non mi riconosco nelle foto. Quella che vedo è una persona più vecchia, rugosa e brutta di quella che ho davanti allo specchio.

Eppure lui trova il momento giusto per non farmi apparire come nelle tradizionali foto ma riesce a riportarmi a un livello simile alla immagine che sento di avere di me.

E così mi chiedo: chi sono io? Il soggetto infotografabile, l'immagine riflessa allo specchio o una proiezione che ogni tanto, mentalmente, faccio di me?

Ho ricominciato a sognare. I sogni di questo periodo prevedono corridoi abbastanza scuri illuminati con faretti e porte che non si aprono, strade sbagliate e posti remoti in cui rimango sola.

Tutto sommato una manna dal cielo rispetto ai morti, al sangue, ai mostri che di solito popolano il mio mondo notturno.

A Cömo è ricominciata la stagione dei monsoni. Pioggia interminabile, tempaccio, freddo.
Più che freddo lo chiamerei fresco.

Poi se ci pensi bene è quasi una sensazione interiore, questa pioggia. Non so se io sono influenzata dal tempo o se la mia interpretazione del meteo viene influenzata da come mi sento.

Sono un grigio al 18%, piovosa e vulnerabile.
Come Cömo.

Aggiungo questa poesia che di tanto in tanto mi torna in mente:

Calmati!
Shhht, no, non guardare fuori dalla finestra. Il rumore è dentro


23 ottobre 2016

I miei siti Unesco

Ho deciso di partecipare a un concorso fotografico; devo fotografare alcuni siti patrimonio Unesco in Lombardia e mettere gli scatti (massimo 10) sui social.
Mi sembra una bella iniziativa, anche per conoscere qualche altro posto che non sia il centro di Cömo, il Birrivico, il Pura Vida d'estate, ecc.
Gambe in spalla e si va.
Il primo sito che scelgo di fotografare è il Sacro Monte di Varese. Trattasi di una montagnolina su cui sono piazzate 15 cappelle (sì, ho cercato un sinonimo ma niente) in salita. Una sorta di percorso spirituale insomma, fino ad arrivare al paesino in cima che è davvero una favola.

Per arrivare lassù io e la mia amica T dobbiamo prendere il bus da Cömo a Varese e poi un altro bus che ci lascia alla prima cappella da cui, proseguendo e salendo a piedi, vedremo tutte le altre. In prima battuta pensiamo di prendere la comoda funivia che ci avrebbe lasciato in cima per poi scendere con calma e fare foto in santa pace. Ma l'autista ci comunica che la funivia non va. Apprendiamo solo in seguito che viene attivata solo nei weekend.
Con (mio) grande disappunto cominciamo a salire. Vorrei descrivervi le chiesette ma sono davvero quasi tutte uguali e anche fotografarle non rende. Patrimonio Unesco sì, ma mi viene l'incazzo se penso al castello di Sammezzano che invece sta lì così in attesa: di cosa, poi, non so.

Il paesello in cima invece è molto carino (ma sarà patrimonio Unesco? Mha) solo che dopo un breve giro ci tocca scendere. La fame chiama e vogliamo qualcosa di veloce da mangiare a Varese.

Non ho mai amato Varese: probabilmente l'ho già scritto ma quando io e Fry eravamo in procinto di trasferirci nel profondo nord stavamo cercando casa a Varese. Poi Zion mi disse "Perché non cercate a Como? È più carina e ci sono anche meno leghisti".
Nonostante Il luogo di lavoro di Fry sia più vicino a Varese ci siamo lasciati convincere soprattutto dalla seconda affermazione. Come poi abbiamo scoperto, a Varese celebrano anche il compleanno di Hitler.
Devastante.
Tornando ai miei siti Unesco la seconda avventura che vi propongo è stata al villaggio operaio di Crespi d'Adda. Convinta di dover fare meno chilometri me la sono presa con calma. La mattina in cui ho deciso di andare ho preso il treno alle 11.16. Fu così che ci misi 3 ore.
3 fottutissime ore.

Como Nord Lago - Milano Nord Cadorna
Metro verde fino a Gessate (lontanissima)
Autobus fino a Trezzo sull'Adda
E, dulcis in fundo, buona mezzoretta a piedi.
In tutto questo ho incontrato persone con istinti omicidi (oltre me) che sembravano ostacolare la mia già difficile propensione all'ottimismo, in una giornata in cui scattare foto (con quel cazzo di cielo bianchissimo) sembrava impossibile.
Il controllore di Trenord sembrava essere strafatto di caffeina. Io uso solo biglietti digitali comprati online che mostro poi a chi di dovere dall'app.
L'app di trenitalia è lentissima, per cui ci mette quei suoi buoni 30 secondi per aprirsi.
In tutto questo io portavo le mie dolcissime cuffione da isolamento sociale, insomma, la mia fabbrica di ottimismo (anche se non tutti comprendono che tenere sulle orecchie delle cuffione con musica metal a tutto volume significa "Non rompermi le palle, sono un'antisociale di merda e odio tutti" e cercano di calpestarmi i piedi ogni due secondi chiedendomi se il bus/il treno/la madonna sono passati).
Errore mio: non le ho tolte, ma in genere non serve.
Passa quindi il controllore e io cerco di aprire l'app.
Cerco.
Attendo.
A un certo punto vedo che muove la bocca: mi levo le cuffie e attacca così: "Certo, se io le parlo e lei ha le cuffie è ovvio che non mi sente. Ce l'ha o no questo biglietto?"
Quasi partito l'embolo.
"Certo, le indicavo lo schermo del cellulare per dirle di attendere un attimo che l'app si stava avviando"
"Eh certo ma se uno le parla e lei ha le cuffie!"

Bene, così mi sento anche in torto.

Procedo nel mio viaggio, arrivo a Milano Nord Cadorna e vado per prendere la metro. Peccato che sulla app non si possano prendere i biglietti per Gessate che è già fuori Milano. Così vado in tabaccheria e chiedo se è possibile fare da lì già i biglietti per Trezzo sull'Adda.
Controlla.
Non sa.
Mi dice che forse è meglio fare prima il biglietto per Gessate e poi lì fare quello per Trezzo sull'Adda.

Conto: 1, 2, 3
"Sa magari le do il biglietto sbagliato"
20, 21, 22..

Scendo in metro e la metro per Gessate passa dopo circa 10 minuti. Non so quantificare il tempo impiegato per il tragitto, invece.

Mi tocca quindi fare il biglietto per Trezzo sull'Adda e andare alla fermata. Il mio amato cellulare intanto è già al 60% di batteria.

Ovviamente so il nome della fermata a cui scendere ma non so dov'è, così dopo un tempo ragionevole chiedo all'autista dove posso scendere per la fermata Biffi.
"È la prossima!" risponde lui secco.
Dato che dopo 5 minuti o forse meno si ferma, chiedo conferma della cosa. "È questa?"
E lui "Ma se le ho detto che è la prossima! Non questa, la prossima!"

1, 2, 3...
Da che mondo e mondo per me "la prossima fermata" è quella che sta arrivando (e per capire se sono io che sto impazzendo ho chiesto conferma a tutti di questa cosa e sì, sono ancora quasi sana di mente).
"Dove sta andando?"
Gli spiego.
"Ah che bello, ma di dov'è lei?"
"Di Como"
"Ah bhe carina Como, però sono molto chiusi perché blabla io ogni tanto vado a Milano che blabla sono più aperti, blabla invece in queste cittadine, blabla per esempio lei coi capelli così blabla la guardano male invece a Milano nessuno ci bada blablabla"
"Mi scusi devo scendere"
"Sìsì, conti che c'è ancora un quarto d'ora buono di cammino da qui"

Detto che mi stava dando le indicazioni sbagliate ci ho comunque messo mezz'ora passando in strade non asfaltate, su ponticini di legno sopra fiumi, in mezzo a sentierini quasi di bosco alberati. L'umidità era talmente alta che presto i miei capelli sono diventati un nido arruffato per moscerini morti e le zanzare mi hanno sbranata.

Finalmente arrivo ed è un po' una delusione. A parte che i villaggi operai mi mettono tristezza (evviva! Il "padrone" di lavoro ti costruisce una casa accanto alla fabbrica così sarai schiavo per sempre, e felice di esserlo!) questo non è particolarmente bello. La fabbrica centrale è chiusa, alcuni edifici abbandonati. Le case non hanno un'architettura particolare e ci sono anche scolaresche in gita che mi impediscono alcune inquadrature.
Vado in quello che, sul loro sito, è indicato come il punto da cui iniziare la visita. Una sorta di centro turistico di accoglienza.

Appena arrivata trovo delle mappe della zone sparpagliati sul bancone e chiedo "Posso prenderne una?"
"Sì certo, sono 50 centesimi"
Mappe a pagamento? Alla fine me la regala.

Scopro che c'è un cimitero e il mio cervello comincia a calcolare quanto tempo mi ci vorrà a tornare a casa e in che ora devo fuggire da quel luogo per essere a casa a un orario decente.
Insomma giornata pessima, foto orribili, tempo indecente. Se non altro sono andata in giro che, sapete, per me chi si ferma è perduto.
Torno a casa alle 19.30 pensando che se voglio fare delle foto che spieghino la bellezza del patrimonio Unesco in Lombardia è bene che mi faccia venire in mente qualcosa perché finora il risultato è pessimo.
Così pessimo che nemmeno io ci vorrei andare!

18 ottobre 2016

La mia (nuova) cena al buio

Sabato 15 ottobre era in programma una cena al buio organizzata dai non vedenti. Ci sono stata anche diversi anni fa, ho cercato sul mio blog se ne avevo già parlato ma a quanto pare no, quindi vi beccate un resoconto dettagliato dell'evento in questione.

Innanzitutto era a Vaiano, vicino Prato. Qualche anno fa probabilmente sempre nei dintorni ma dentro il teatro di una chiesa, in periodo di quaresima e avevamo mangiato solo riso e patate. L'atmosfera ora era completamente diversa.

Ne ho approfittato essendo giù per la scuola di Fotografia, coinvolgendo i ragazzotti toscani due dei quali alla fine non sono riusciti a venire, indiposcia eravamo io, il buon Gianni, la sua ragazzotta, Marco e Giadina.

Come previsto ci avrebbero purtroppo diviso in due tavoli, questo perché i tavoli sono da 6 e dovevano fare in modo da riempirli senza lasciare nessuno isolato.

Appena arrivati al posto ci hanno consegnato dei meravigliosi bavaglini, l'elemento più utile della serata perché il tovagliolo spesso svaniva nel nulla (nulla=pavimento) e cercare robe nel buio sul tavolo vi assicuro era così frustrante che spesso tenevo il bicchiere con una mano e mangiavo con la forchetta (più facile con le mani) con l'altra!

Ma torniamo al principio, ecco una nostra bellissima foto prima che cominciasse tutto:

Ancora sereni (abbastanza)...
Arriva l'organizzatrice che urla "Carla la vegana?" "sarei vegetariana ma eccomi!"
"Bene tu devi stare al tavolo 5 insieme da altre due persone, non mi interessa come vi dividete basta che tu sia al tavolo 5". Presto fatto. Marco e Giada vengono portati via prima di noi, l'ingresso è lento perché, come scopriremo più avanti (ed era stato così anche la scorsa volta) si entra in sala che è già totalmente buio.

Finalmente tocca a noi e io, Gianni e Laura ci mettiamo in coda a tre ragazzotti sconosciuti per fare il nostro ingresso. Fila indiana, mano sulla spalla di chi ci precede e chi guida il trenino è un non vedente. Inutile anche marcare il fatto che camminassimo con passettini minuscoli. Io in particolare non amo molto il buio, dormo sempre con uno spiraglio di luce che entra dalle tapparelle e quando ero piccina esigevo una lucina accesa.
Dopo un tempo che sarà stato breve ma a me è sembrato eterno, sento quello davanti a me che si siede, quindi perdo totalmente la mia guida. Sono a bordo tavolo, tocchiccio un po' e trovo una sedia. Il mio cervello urla "MEINE" e successivamente "non mi sposterò mai un millimetro da qui".

Si comincia con le presentazioni, davanti a me ho Jonathantuttoasinistra (alla sua sinistra ovviamente) che pensavo si chiamasse inizialmente Gianni, poi ho capito Gionata, e che ho chiamato tutta la sera Giona per evitare di sbagliare. Alla mia sinistra c'è il buon Gianni e davanti a lui c'è Andreaalcentro e davanti alla Laura c'è Francescotuttoadestra.

Si comincia già a capire che non sarebbe stata una serata normale, i ragazzotti sconosciuti fanno casino e sono molto divertenti. In un certo senso è stato meglio, qualche anno prima era tutto più silenzioso, più riflessivo. Nelle tenebre il lato più oscuro di noi viene a galla e ci sono stati momenti in cui speravo la serata terminasse presto.

Questa volta le voci erano un po' più alte, probabilmente non percependo la distanza tendevamo a urlacchiare e a riempire tutti gli spazi vuoti della conversazione. Ad esempio, quando qualcuno vi parla ma voi state mangiando, tendete a fare sì col capo per fare comprendere all'interlocutore che lo state ascoltando. Ma il silenzio al buio è imbarazzante così mentre mi ingolfavo coi tortelli e Jonathantuttoasinistra era intento a rubarmi il piatto, o il bicchiere o a rovesciare qualcosa e magari mi stava raccontando del suo lavoro da idraulico o del fatto che (sul serio) fossero giocatori professionisti di freccette, non potendo lui vedermi fare cenno di sì col capo, a volte si creavano dei silenzi imbarazzanti che mi sentivo in dovere di riempire con "AHMADAICHEBELLO". Che con la bocca piena suonava come un "BLAGJDKHJLLO".

Io avevo intravisto i tre ragazzotti prima di entrare ma non sapevo "chi" avevo davanti e per me la percezione visiva è tutto. Se posso scordarmi dei nomi (ma guarda un po' però, al buio mi sono ricordata ben tre nomi senza problemi) i visi non li dimentico (quasi) mai e l'idea di non sapere chi avevo di fronte era per me una roba tremenda.

Il pasto era sostanzioso, il menù fisso comprendeva antipasto nel mio caso (quasi) vegetariano. A un certro punto addento una cosa che sa di tonno e pensate un po', è tonno. Non ho polemizzato e ho mangiato. Pazienza, il concetto di vegetariano che non mangia il pesce (essendo il pesce un animale) non è ancora entrato nella testa di molti.
Poi tortelli con patate (nel mio caso burro e salvia) e infine patate arrosto, formaggi e spinaci che ho mangiato con le mani perché ho trovato difficile usare la forchetta. Anche i tortelli, ne infilavo in bocca due o tre per volta perché rimanevano appiccicati e non riuscivo a separarli. Così a fine serata avevo le mani che odoravano di formaggio, burro e salvia e spinaci. E, non contenta, le facevo annusare! "SENTICOMEPUZZANOLEMIEMANI!"

Ogni tanto qualcuno tirava fuori il cellulare emettendo un fascio di luce che veniva subito nascosto, seguito dagli insulti degli altri.

Decisamente la presenza dei tre ragazzotti è stata fortuita, assolutamente casinisti e decisamente simpatici, mi hanno anche chiesto se vado a fare alla squadra di freccette delle foto per il giornale. Probabilmente sarò pagata in lezione di freccette o birre ma per ora sarò ben felice di allenarmi.

Alla fine della serata un organizzatore ci porta a fare un giro della sala al buio e fu così che Jonathantuttoasinistra mi afferra per un braccio e mi ritrovo in mezzo a lui e Francescotuttoadestra a fare micropassettini per la stanza che, indovinate un po', sembrava immensa e invece una volta portate le candele (per abituare gli occhi) e accese le luci era un semplice rettangolo coi tavoli ai lati.

Finalmente vedo i miei avventori ed è strano perché c'è un po' di imbarazzo "ah quindi tu sei tu!" anche se avevamo parlato tranquillamente tutta la sera.

Mi sono quasi scordata di parlarvi del settimo avventore della serata, il famigerato TORTELLO trovato sotto al mio piatto. Quando sono venuti a tirare via i piatti vuoti dei tortelli, tocchicciando il tavolo (già bagnato tra acqua, vino e non voglio sapere che altro) sento questa cosa viscidina che scopriamo essere un tortello. È ovviamente finito lì quando il mio dirimpettaio mi ha rubato il piatto e lo abbiamo messo a capotavola, come settimo ospite.


Ha fatto una tragica fine, accoltellato da Andreaalcentro, a fine serata, forse per un moto di gelosia nei confronti dell'amico. Usciti ci ritroviamo con Marco e Giada che abbiamo provato a chiamare durante la serata per capire in che tavolo fossero ma, col casino che c'era, non ci hanno sentiti.

C'è stato anche un momento di riflessione seguito da questo pezzo:

La libertà Giorgio Gaber


10 ottobre 2016

La mia nuova vita, il mio ultimo giorno di lavoro, il mio futuro

Ho aspettato di terminare il mio diario sul Madagascar (che ha impiegato un lunghissimo anno) per raccontare davvero quello mi preme di più scrivere.
Ho cominciato l'accademia internazionale di Fotografia a Firenze. Un weekend sì e uno no, la bella città rinascimentale mi accoglie per insegnarmi a disegnare con la luce stupendi scatti.
Perché Firenze? Perché quella scuola?

Torniamo indietro. Qualche anno fa, penso 4, un'amica di Fry ci raccontò di aver frequentato quella scuola. Ora lavora come fotografa. Non sempre c'è una correlazione causa effetto, la scuola non fa miracoli. Il mestiere del fotografo è duro, c'è tanta concorrenza, è che lei è molto brava.
Avrei tanto voluto iscrivermi anche io a quella scuola ma non avevo i soldi e così chiusi quel sogno in un cassetto senza pensarci più. La scuola mi avrebbe permesso di frequentare un weekend ogni due, non dovendo quindi lasciare il lavoro, ed era possibile fare uno stage tramite loro.
Per me sarebbe stato il massimo.

Lavorare in un call center è un po' l'inferno. Avete letto "Dannazione" Di Chuck Palanhiuk? Male, dovreste leggerlo.
Se però non vi andasse di trascorrere l’eternità facendovi endoscopie approfondite su un qualche squallido sito Internet, davanti agli sguardi libidinosi di milioni di uomini con gravi problemi di intimità, l’altro tipo di lavoro che quasi tutti scelgono di fare, qui all’inferno, è… il telemarketing. Ovvero sì, starsene seduti a una scrivania, gomito a gomito con schiere di altri colleghi condannati agli inferi lunghe fin oltre l’orizzonte in entrambe le direzioni, parlando a macchinetta in un auricolare con microfono.
Ecco in cosa consiste il mio lavoro: le forze oscure calcolano senza sosta il momento in cui nelle varie zone della Terra arriva l’ora di cena, e un computer chiama in automatico i numeri di telefono delle zone in questione, in modo da interrompere i pasti di chiunque. Il mio obiettivo non è vendervi chissà che: vi chiedo soltanto se avete un minuto per partecipare a un sondaggio per rilevare i trend di consumo dei chewing gum. 

In effetti il call center, che tu debba vendere, intervistare o solo ("solo") dare assistenza è questo. Un rumore di fondo continuo che a lungo andare annebbia il cervello. Se già la mia memoria non ha mai funzionato in maniera continuativa, notavo che stava perdendo sempre più colpi.
"C********i buongiorno sono C*l*m*o, come posso esserle utile?"
Giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto. I clienti non sono tutti dei geni e la mia famosa pazienza cominciava a vacillare. Qualche volta sono andata in bagno a piangere, poche sappiatelo, qualche volta ho attaccato tirando giù bestemmie, qualche volta ho tolto le cuffie e ho lasciato che dall'altra parte continuassero a urlare, qualche volta io ho ricevuto bestemmie, e avanti così.

Il lavoro rende liberi, nessuno ci ha mai creduto. Se sono rimasta è solo perché amo la mia indipendenza, amo poter fare qualche viaggio oltreoceano (e questo lavoro ha permesso il Madagascar, dopo 10 anni!), amo potermi dedicare ad altro. Ma gli oggetti si sa, vengono spesso acquistati perché c'è un grande vuoto dentro, una frustrazione che non riusciamo a comprendere appieno né a superare. Vai di obiettivi, vai di libri, corso di danza, corso di basso eppure quella frustrazione di base rimane sempre. E d'improvviso, anche se potresti lasciare il lavoro, ti ci trovi invischiato. Ormai sei schiavo dei tuoi oggetti, della tua vita, dei tuoi acquisti e niente. Devi continuare.

Ci sono state diverse svolte tra le mie conoscenze che mi hanno portata a pensare di dover cambiare vita. È questa l'ora, non avrò mai più un'altra occasione.

Delle tante esperienze di vita altrui di cui faccio tesoro, la più importante è stata quella di PulcettaBallerina, una delle mie amiche più care. Dopo più di 10 anni in un call center (lo stesso in cui ho lavorato anch'io a Bologna per quasi 2 anni - i più lunghi della mia vita - tentando disperatamente di cambiarlo, tralaltro) ha deciso di voltare pagina. Ha richiesto la mobilità e si è iscritta all'università. È stata una scelta importante perché ci ha messo tanto e ha investito tutto quello che aveva. La sua scelta è stata per me un'epifania. Mi sono detta:



Ora restava il più grande interrogativo: quale sarebbe stata la mia strada? Cosa avrei potuto fare nella vita?

La mia scelta è sempre stata dettata da un'intuizione del momento, non ho mai imparato a essere lungimirante. Quel piccolo sogno nel cassetto che non era nato 4 anni fa, ma molto prima, quando dopo la scuola di Grafica ero intenzionata a proseguire con gli studi di Fotografia per mettere in atto quanto imparato tra bagni di sviluppo, fissaggio e i vari scatti in sala pose, era ormai dimenticato. Come un libro che acquisti e che volevi leggere ma che non sai più di avere.

Feci questo sogno e mi fu presto chiaro che ci doveva essere un modo. Per temporeggiare ma intanto fare qualcosa.
E mi tornò alla mente la scuola.
Di fotografia.
A Firenze.

Non era necessario per me lasciare il lavoro, dato che si sarebbe trattato di un weekend ogni due, e poi quando si sarebbe reso necessario fare lo stage, bhe ovviamente mi sarei dedicata solo a quello. Prima o poi una strada avrei dovuto prenderla, non potevo fare tutte e due le cose per sempre.

Così a scuola, un giorno, parlando con il signore che si occupa di seguire la pratica per lo stage di ognuno di noi, mi chiese quanto tempo avevo da dedicare allo stage. Risposi che stavo per lasciare il lavoro. "Da quando sei libera?".
Dissi "settembre, massimo ottobre". Era chiaro che di lì a poco avrei dovuto dare le dimissioni dato i due mesi di preavviso. E così è stato. A fine giugno ho presentato le mie dimissioni con un ampio sorriso sul volto e il 31 agosto è stato il mio ultimissimo giorno. Dal primo settembre sono libera. Dopo due anni e passa di cuffie nelle orecchie, lavoro di 8 ore al giorno su turni, isolamento totale dal mondo.
Libera.
Di scattare, di elaborare e anche di non fare un cazzo.

Vorrei scrivere molte, moltissime altre cose, ma lascio che il blog rifiorisca raccontandovi giorno per giorno le mie piccole avventure.

La scuola è cominciata ad Aprile e mi ha dato davvero tanto. Ogni giorno miglioro e sento di aver fatto la scelta giusta. Qualche scatto potete già guardarlo qui.

07 ottobre 2016

17/10/2015 e 18/10/2015 - Dolce ritorno ad Antsirabe. Partenze e addii.

Il viaggio di ritorno è molto silenzioso. Ho i lucciconi e so che mi mancherà questo posto. Fry si lamenta perché dice che sull'aereo saremo i più puzzoni, ma non so come fargli capire che non me ne frega niente. Non riesco nemmeno a dire il mio solito Fottesega, è un problema talmente secondario che la mia testa non ce la fa ad esprimerlo.
Ripercorriamo a ritroso il tragitto dell'andata e non è facile.
Ci siamo fermati perché Eric ha comprato due sacchi di (sembra) foglie secche. Scopriamo che quelle foglie sono eucalipti e un'altra pianta malgascia e che li usano per cucinare dato che non c'è il gas: danno fuoco a questi arbusti secchi. 2 sacchi sono costati 6000 Ar (circa 2 euro) ed Eric ci specifica che gli basteranno per due mesi. Ricordiamo che è cuoco.

Ci fermiamo quindi a prendere un caffè dove assaggio dei dolcetti croccanti, impastellati e fritti, fatti con il riso. Buonissimi. Due caffè e due dolcetti sono costati 600 Ar. Quanto può essere? 20 cent?
Arrivati ad Antsirabe ci vediamo con Gaby in un ristorante. Sembra stare molto meglio, dice che un osso è quasi del tutto ricoperto dalla carne e che comunque la ferita sta guarendo.
Chiedo se Eric e Mami mangiano con noi e Gaby li invita a sedersi.
Il ristorante è molto "bello". Perdonate le virgolette, ma è molto turistico. Penso che Gaby ancora non ci abbia inquadrato e abbia voluto farci mangiare in un ristorante che ritiene di nostro gradimento.

Mangiamo; Gaby torna a casa sua e quando torna andiamo all'hotel che era lo stesso in cui siamo stati i primi giorni ad Antsirabe.
Ci scattiamo una foto e ci salutiamo, Eric e Mami tornano alle loro case e Gaby ci da' appuntamento per l'indomani mattina alle 7. Con Eric rimarremo in contatto: collabora con un'associazione di volontariato e vogliamo aiutare e contribuire.
Grazie..
Ci mettiamo a letto a riposare ma alle 17.15 (ora locale) sveglio Fry perché devo prender l'antibiotico e dobbiamo comprare una bottiglia d'acqua. Andiamo al ristorante dell'hotel ma è chiuso (hotel.. sono bungalow) e apre alle 18. E chi incontriamo all'esterno della struttura? Andry, il ragazzo che doveva portarci al Famadihana, in attesa di clienti per il suo pousse pousse. Dapprima accettiamo, poi gli chiediamo di fare due passi con noi. Non ce la sentiamo di farci portare lì sopra.

Lascia il pousse pousse davanti all'albergo e ci accompagna.
Ci spiega che il pousse pousse è a noleggio perché costerebbe troppo comprarlo (80 euro, abbiamo avuto un mezzo pensiero di regalarglielo!) mentre il noleggio gli costa 7000 Ar al giorno.
Lui parla inglese con noi e non capisco bene tutto quello che dice ma ci racconta la storia di questo bizzarro mezzo di trasporto.

Arriviamo a un chioschetto e paghiamo l'acqua con una banconota da 10000 Ar (il taglio più grande che hanno). La ragazza che ci serve ci guarda con gli occhi sgranati, non ha il resto. Sparisce per poter cambiare la banconota e nel frattempo un signore vestito di bianco, totalmente ubriaco, ci stringe la mano e manca poco casca a terra. La ragazza torna, ci da' il resto e la bottiglia grande di acqua e torniamo via.

Arrivati all'albergo lo salutiamo ma gli paghiamo la corsa, ci ha fatto compagnia e ha perso potenziali clienti (noi tralaltro ci siamo rifiutati di fare il giro, quindi...). Lo salutiamo, prendo il mio antibiotico, è quasi ora di andare via.

Ceniamo e andiamo a dormire.

Ci svegliamo il giorno dopo molto presto per essere a fare colazione, dato che poi Gaby arriverà alle 7. Peccato che il ristorante apre alle 7 quindi non riusciamo a fare colazione, per fortuna Gaby ci accompagna a farla e poi via, per l'aeroporto di Antananarivo.
Con noi anche la moglie di Gaby e la loro nipote.

Che dire? Dai finestrini scorrono i paesaggi che abbiamo visto all'andata. Il deserto ha lasciato da tempo il posto alla campagna e agli altipiani in lontananza. Ripassiamo davanti ai mattoni appena fatti con argilla di fiume, i panni stesi lungo il fiume, gli zebù per la strada. Ogni cosa diventerà un ricordo.
Ogni tanto chiacchieriamo con Gaby ma non ricordo cosa ci siamo detti. Arriviamo all'aeroporto, facciamo le varie code e ripartiamo. Stessi scali, tutti al contrario.

Come se ci dovessimo riabituare pian pianino al rientro a casa.


In un anno sono riuscita a completare la riscrittura di questo diario. Mi ero avvertita: finire di scriverlo voleva dire per me terminare il viaggio per la seconda volta e anche per questo ho rimandato finché ho potuto. Sono rimasta in contatto con Eric, al quale abbiamo anche mandato qualcosa per l'associazione per cui fa volontariato, così il Natale del 2015 nessun nostro amico o parente ha ricevuto un regalo, in quanto tutto è andato ai ragazzi malgasci.

Poco dopo il ritorno mi sono trovata a fare colazione tra le lacrime. Credo di aver sofferto per la prima volta il mal d'Africa anche se, a detta dei malgasci, il Madagascar non è Africa. Eppure il rosso della terra, il calore del sole e del cuore dei malgasci, la foresta, il deserto, gli animali, i suoni della musica, ogni cosa sapeva di Africa. Mi sono ripromessa di tornarci per vedere altre zone e, questa volta, rimanere più a contatto con la popolazione locale.

Ancora adesso ho i lucciconi pensando a cosa abbiamo visto, alla tragedia di una terra così bella e devastata, alle foreste che ora quasi non ci sono più e alla povertà che, se in città è visibile, in campagna rende le persone più semplici e con il cuore più aperto. Ma i malgasci non si piangono addosso, vanno avanti Mora Mora e sono stupendi nella loro lentezza.
Africa, donne che portano ceste pesantissime sulla testa, uomini che lavorano nei campi, bambini che sorreggono altri bambini e che sorridono quando ti vedono. Altri che fuggono via spaventati. Altri semplicemente urlano "vazaha" e scappano.

Amo tanto questo posto e spero di essere stata d'aiuto per chi un giorno vorrà intraprendere un viaggio nella fantastica terra dei lemuri. Rischio di ripetermi ma vi lascio ascoltare questo pezzo, un'altra volta.

Soary Sareraka