29 dicembre 2018

Polacchia #3

Ma siete pronti? No, nemmeno io.
Tra poco parto e ho cancellato tutti gli alberghi tranne i primi due, ormai la visita a Białowieza è saltata. Io e la mia compagna di viaggio siamo raffreddatissime, sceglieremo cosa fare di giorno in giorno. Non avendo programmi sarà ancora più divertente, sempre che non ci venga la febbre e allora sarà spassosissimo.
Stanotte avevo freddo così mi sono messa a cercare le assicurazioni di viaggio che non si sa mai. Poi ho controllato i voli e fottesega, ce ne sono alcuni per tornare a 40 euro, mal che vada...

Ho alleggerito lo zaino non dovendo più portare l'ottica lunga, in compenso sono una farmacia ambulante tra aspirine, paracetamolo e ibuprofene per mal di testa.
Non penso mi verrà la febbre ma non si sa mai.

Danzica arrivo. Non di corsa ma trascinandomi un po'.

27 dicembre 2018

Ti respiro e ti trattengo per averti per sempre oltre al tempo di questo momento

Pronti per un nuovo strabiliante viaggio in Polonia? Sì?
Bene, io no.
Insetti stecco da sistemare presso amico ma solo dopo averli provvisti di rovi, prova peso zaino da fare, cercare ancora diversi collegamenti, guida italiana per la foresta di Białowieza che non risponde ai miei messaggi, ricerca spasmodica di roba invernale a casa, partenza dopodomani.
Ah e domani ho un colloquio.
Di lavoro.
Come grafica.
Editoriale.

Dio non c'è, e se c'è ha un gran senso dell'umorismo di merda.

Stay tuned, che stavolta si gela. Prevedo antipasti, colazioni, merende e cene a base di Vodka.

Canzone del giorno: Mentre Dormi Max Gazzè


[Mentre dormi ti proteggo
E ti sfioro con le dita
Ti respiro e ti trattengo
Per averti per sempre
Oltre il tempo di questo momento
Arrivo in fondo ai tuoi occhi
Quando mi abbracci e sorridi
Se mi stringi forte fino a ricambiarmi l'anima
Questa notte senza luna adesso
Vola tra coriandoli di cielo
E manciate di spuma di mare
Adesso vola
Le piume di stelle
Sopra il monte più alto del mondo
A guardare i tuoi sogni
Arrivare leggeri
Tu che sei nei miei giorni
Certezza, emozione
Nell'incanto di tutti i silenzi
Che gridano vita
Sei il canto che libera gioia
Sei il rifugio, la passione
Con speranza e devozione
Io ti vado a celebrare
Come un prete sull'altare
Io ti voglio celebrare
Come un prete sull'altare
Questa notte ancora vola
Tra coriandoli di cielo
E manciate di spuma di mare
Adesso vola
Le piume di stelle
Sopra il monte più alto del mondo
A guardare i tuoi sogni
Arrivare leggeri
Sta arrivando il mattino
Stammi ancora vicino
Sta piovendo
E non ti vuoi svegliare
Resta ancora, resta per favore
E guarda come
Vola tra coriandoli di cielo
E manciate di spuma di mare
Adesso vola
Le piume di stelle
Sopra il monte più alto del mondo
A guardare i tuoi sogni
Arrivare leggeri
Vola, adesso vola
Oltre tutte le stelle
Alla fine del mondo
Vedrai, i nostri sogni diventano veri]

26 dicembre 2018

Hic et Nunc

Chi non ha posto in casa, non ha posto nel cuore.
Così mi diceva uno dei miei più cari amici, M.
Casa sua era una specie di porto di mare, la porta sempre aperta. Per cultura è molto ospitale, si mangia quello che c'è, senza preparare i lauti pasti che facciamo noi. A casa sei il benvenuto e mangi ciò che abbiamo.

Io non ho posto nel cuore. Non amo ospitare le persone, sono territoriale e faccio fatica anche se, certo, dipende dalla persona e dalla situazione.

Avere accesso alla grotta di qualcun altro è sempre una concessione non scontata.

Ricapitolando, entrare in casa di qualcuno è un po' come sapere che gli state entrando nel cuore. Io non so chi altri ha avuto questo onore, ma entro, mi tolgo le scarpe per non sporcare e cammino in punta di piedi.

Osservo bene come si muove l'altra persona, per capire in quali spazi posso esistere, che io sono sempre un po' goffa; osservo la grotta che lo ospita e comprendo, osservando dalla finestra, i vari motivi per cui l'ha scelta.

Mi siedo sul divano e lo guardo cucinare per noi, una coccola particolare che io apprezzo tantissimo.

È una normalità a cui non sono più abituata. Il fare la spesa, guardare un film abbracciati sul divano e addormentarsi l'uno sull'altra facendo l'amore prima, durante e dopo.

Prima, durante e dopo qualsiasi cosa.

Il picchio rosso però è lì in agguato. Si sente a chilometri di distanza e anche se ti tappi le orecchie il suono impercettibile c'è.

Tictictictictic
[bzz bzzzzz]


Sembra quasi un cigolìo.
Tictictictictic
[bzz bzzzzz]

Il suono del picchio è come il rubinetto che gocciola e che ti impedisce di godere di un buon sonno. Le premesse ci sono tutte, sei stanco, ti si chiudono gli occhi, hai anche la possibilità di farti quelle belle 8 ore di sonno ma.
Tictictictictic

Io ora sono il piccolo suricate di guardia, il collo allungato e lo sguardo attento alla ricerca di pericoli. Non riesco a essere tranquilla, non ci riesco.
Nonostante la bellezza di questi giorni, non riesco.

È che ho sofferto tanto e non voglio più stare male.
A livello razionale mi sento tranquilla, lo sento. A livello emotivo è scoppiato un allarme antincendio con evacuazione in atto e non so se si tratta di un'esercitazione o se è un incendio reale.

RagnoB mi consiglia di godermi il qui e ora, e poi si vedrà. Controllo il tatuaggio con la stessa scritta, è ancora lì? Sono ancora io quella persona che vive di istanti?

Il picchio non da' tregua ma quando cala la notte e la foresta si anima di presenze silenziose, posso chiudere gli occhi e sognare cose belle. Le mani che stringono le mie, una parola dolce appena sussurrata, una carezza inaspettata.

Allora posso dire al suricate che non c'è pericolo, il picchio dorme nella sua tana, il rubinetto smette miracolosamente di gocciolare.
Fino al giorno successivo.

Bzz bzzzzz.

Ich liebe dich.

Canzone del giorno: Heirate Mich Rammstein

23 dicembre 2018

L'Oracolo

Mi stai dicendo tutto?

Nubi scure sul tuo volto, nubi scure sul mio volto. Nessun fulmine apparente, ma una tempesta nascosta che pure sentiamo.

Ho bisogno di consultare l'Oracolo.

Viaggio per strade immaginarie senza confini, attraversando deserti caldi e pianure desolate. Nebbie interiori che rendono il mio cammino incerto e dubbioso.

L'Oracolo è lì, è immenso e io minuscola al suo cospetto.
Questo è il periodo dell'anno migliore per consultarla, tutti viaggiano a passi certi e credono di non averne bisogno: così sono qui, sola, devo solo potermi avvicinare.

Una voce tuonante sentenzia:
Tu non sai in realtà come stanno le cose. 
Il terreno vibra sotto l'onda di queste parole.
Sai solo ciò che ti dice.
Gli occhi infuocati.
Tu conosci il tuo pezzo. 
Mi tremano le mani.
Tu puoi accettare o non accettare la situazione.
Questa è l'unica cosa che tu puoi fare.

Gli occhi dell'enorme statua che rappresenta l'Oracolo si spengono, si chiudono.
Non so più a cosa credere.
L'Istinto mi dice di fuggire via, alla Ragione mancano dei pezzi del puzzle, quelli che ha non si incastrano. Il Cuore mi dice di restare e attendere.

Sono dilaniata dai miei stessi pensieri ma alla fine l'Oracolo ha ragione.
Ho solo due mosse disponibili.

21 dicembre 2018

Griselda

A piedi degli alti monti; dai quali il Po scaturisce e si versa per le campagne, viveva un principe giovane e prode, che era la delizia del suo paese. Il cielo gli avea fatto, fin dalla nascita, ogni dono più raro, come se proprio si trattasse d’un gran re.
Era robusto, svelto, valoroso; amava le arti, la guerra, i grandiosi disegni, le prodezze, la gloria, quella sopratutto di rendere felice il suo popolo.
Un’ombra però oscurava quel bel carattere: in fondo in fondo al suo cuore, pensava il principe che tutte le donne fossero perfide e infedeli; anche la più virtuosa gli sembrava un’ipocrita, una superba, una nemica spietata, sempre ansiosa di tiranneggiare l’uomo disgraziato che le capitasse alle mani.
La pratica del mondo, dove tanti sono i mariti schiavi o ingannati, accrebbe ancora quest’odio profondo. Giurò dunque il principe, che se pure il cielo avesse a posta per lui formato un’altra Lucrezia, mai e poi mai avrebbe preso moglie.
Così, dopo avere impiegato la mattina agli affari di stato, protetto i diritti della vedova e dell’orfano, abolito un’antica imposta di guerra, se ne andava a caccia il resto del giorno, dove i cignali e gli orsi, per feroci che fossero, gli davano meno fastidio che non avrebbero fatto le donne, da lui sempre evitate.
I sudditi nondimeno, ansiosi di assicurarsi un successore non meno buono di lui, lo premuravano sempre perché s’ammogliasse.
Un giorno se ne vennero tutti a palazzo per tentare un ultimo sforzo. Prese la parola uno dei più eloquenti, e disse tutto ciò che si può dire in casi simili: che il popolo era impaziente di veder assicurato un erede al trono; che già si figurava di scorgere un astro nascente, e che questo avrebbe brillato d’una luce senza pari.
Rispose il principe in modo semplice e piano:
“Son lieto e commosso del vostro zelo, che mi è prova dell’amore che mi portate; e vorrei subito contentarvi, se non pensassi che il matrimonio è un certo affare, in cui la prudenza non è mai soverchia. Osservate bene tutte le ragazze: finché stanno in famiglia, sono virtuose, docili, modeste, sincere; ma appena maritate, la maschera non serve più, ed eccole mostrarsi nel loro vero carattere. Questa diventa una bigotta brontolona; quella una fraschetta ciarliera, sempre in cerca d’amanti; una terza si atteggia a far la saputa; un’altra ancora si dà al giuoco, perde danari, gioielli, mobili, vestiti e manda la casa in rovina.
“In un sol punto, si somigliano tutte, nel volere a tutti i costi dettar la legge. Ora io son convinto che nel matrimonio non si può esser felici, quando si comanda in due. Se dunque voi bramate darmi moglie, trovatemi una fanciulla che sia bella, punto superba, non vanitosa, obbediente, paziente, senza volontà; ed io vi prometto di sposarla.”
Ciò detto, il principe balzò in sella e si slanciò a spron battuto verso la pianura dove i compagni di caccia lo aspettavano.
Traversati campi e sentieri, li trovò alla fine che giacevano sull’erba. Tutti si alzano e fanno squillare i corni. Corrono e abbaiano i levrieri; i cani di punta scuotono il guinzaglio e tirano i servi che li tengono a fatica; galoppano e nitriscono i cavalli; rintrona la foresta, e in essa si sprofonda e scompare tutta la brillante e rumorosa brigata.
Fosse caso o destino, il principe prese un sentiero traverso dove nessuno lo segui; più corre, più si allontana dai suoi, fino a che non sente più neppure lo strepito dei cani e dei corni.
Si trovò così in un posto remoto ed ombroso, qua e là inargentato da un corso di acqua. Tutto intorno era silenzio; e mentre egli si lasciava andare all’incanto malinconico del bosco, ecco che una deliziosa apparizione gli colpisce gli occhi e gli fa battere il cuore.
Era una pastorella che guardava il suo gregge, standosene in riva d’un ruscello e facendo con mano esperta girare il suo fuso.
Il cuore più selvaggio ne sarebbe rimasto invaghito. Bianca come un giglio, con una bocca infantile, e due occhi più azzurri e più luminosi del firmamento.
Il principe, al cospetto di tanta bellezza, si avanza turbato; ma al calpestio la fanciulla si volta, arrossisce, abbassa gli occhi pudica, con una dolcezza, una sincerità, un candore, di cui il principe credeva incapace il bel sesso.
Preso da insolito terrore, egli fa un passo e, più timido di lei, le dice con voce tremula di aver perduto la traccia dei suoi cacciatori e le chiede se mai gli avesse visti passare pel bosco.
— Niente è apparso in questa solitudine, risponde la fanciulla. Ma state pur tranquillo, vi rimetterò io sulla via.
— Io ringrazio il cielo, dice il principe, della mia sorte. Da molto tempo frequento questi posti, ma fino ad oggi ignoravo quel che essi hanno di più prezioso.
Così dicendo, si china per attingere nel ruscello un po’ d’acqua.
— Aspettate, signore, dice la pastorella, e correndo verso la sua capanna, prende una tazza e la porge con grazia al cavaliere assetato.
I vasi più preziosi di cristallo e di agata, i più ricchi di oro e più artisticamente lavorati, non ebbero per lui mai tanta bellezza quanto quel rozzo vaso d’argilla.
Si avviarono insieme, traversarono boschi, rocce, torrenti. Il principe si guarda intorno, osserva, nota, cerca d’imprimersi in mente la via.
Arrivarono alla fine in una boscaglia scura e fresca; e là, di mezzo ai rami, scerse da lontano, in mezzo alla pianura, i tetti dorati del palazzo reale.
Accomiatatosi dalla sua compagna, si allontanò tutto lieto della bella avventura; ma il giorno appresso si sentì vinto dalla noia e dalla tristezza.
Non appena gli fu possibile, tornò alla caccia, si staccò dagli amici, si cacciò nel bosco, e poichè ben si ricordava tutto il laberinto dei sentieri percorsi, trovò senza molta fatica la casa della pastorella.
Seppe che si chiamava Griselda, che viveva sola col padre, che si nudrivano del latte delle loro pecorelle e che dalla lana di queste, da lei filata, si facevano i vestiti.
Più la guarda, più s’innamora di tanta bellezza e di tante virtù; si compiace di aver così ben collocato i suoi primi affetti e, senza perder tempo, fa convocare il suo consiglio ed annunzia di aver trovato una sposa, una ragazza del paese, bella, saggia, bennata.
La notizia si sparse in un baleno, e non si può dire con quanta allegrezza fu accolta. Il più contento fu l’oratore, che attribuì alla propria eloquenza la riuscita; e subito per tutta la città si vide un curioso spettacolo, perchè tutte le ragazze fecero a gara per mostrarsi pudiche e modeste e attirar così l’attenzione del principe, i cui gusti erano notorii. Tutte mutarono di vestiti e di contegno; tossirono divotamente e raddolcirono la voce; le pettinature si abbassarono di mezzo palmo, i corpetti si abbottonarono fino alla gola; le maniche si allungarono.
Fervevano intanto per la città i preparativi per le nozze. Carri scolpiti e dorati, palchi, archi trionfali, fuochi d’artificio, balli, operette, musiche.
Arrivò alla fine il giorno sospirato.
Spuntata appena l’alba rosata, tutte le donne della città furono in piedi; il popolo accorre da tutte le parti, le guardie qua e là fanno far largo. Tutta la reggia rintrona di trombe, flauti, fagotti, cornamuse, tamburi.
Si mostra alfine il principe, circondato dalla sua corte, ed è salutato da un grido unanime di gioia; ma si rimane molto sorpresi nel vedere che, alla prima voltata, egli prende la via del bosco vicino, come tutti i giorni solea fare. “Siamo da capo, si diceva; eccolo che non sa resistere alla passione e torna a caccia”.
Il principe traversa la pianura, entra nel bosco, passa per questo e per quel sentiero, arriva finalmente alla nota capanna.
Griselda, che avea sentito parlar delle nozze, voleva anch’essa assistere allo spettacolo, e in quel punto stesso, con indosso gli abiti della festa, usciva sulla soglia.
“Dove correte così svelta e frettolosa? le disse il principe, guardandola con tenerezza. Fermatevi. Le nozze non si potrebbero fare senza di voi. Sì, io vi amo, io vi ho scelto fra mille bellezze per passar con voi il resto della mia vita; se però voi non direte di no. — Ah, signore! esclamò ella, tanta gloria non è per me. Voi volete scherzare. — Tutt’altro. Ho già parlato a vostro padre; non manca che il vostro consenso. Ma perché fra noi regni costante la pace, bisogna giurarmi che non avrete mai altra volontà fuor della mia. — Lo giuro, e ve lo prometto. Se avessi sposato l’ultimo del villaggio, avrei con gioia accettato di essergli schiava; tanto più con voi, mio signore e mio sposo.”
Fissate così le nozze, fra gli applausi della corte, il principe conduce la sposa nella capanna, dove due damigelle la vestono e l’adornano per l’occasione.
Fulgida di beltà e di ricchezza, emerge finalmente la sposa dall’umile abituro ed è accolta da un’acclamazione entusiastica. Si asside maestosa sopra un gran carro di oro ed avorio, il principe prende posto al suo fianco, i cortigiani seguono in folla.
Tutto il popolo, avvertito della scelta del sovrano, accorre incontro al corteo; fa ressa intorno al carro; poco manca che non distacchi i cavalli. Si arriva alla chiesa; si compie il sacro rito; si scambia la promessa, si chiude la solenne giornata fra danze, giuochi, corse e tornei.
Il giorno appresso, tutte le autorità si presentano a palazzo per congratularsi coi novelli sposi. Griselda, circondata dalle sue dame, serbò un contegno da vera principessa. Tanto il cielo l’avea favorita d’ingegno e di prudenza, che in breve acquistò i modi di una vera sovrana e seppe guidare le sue dame assai più agevolmente che non avesse guidato altra volta le sue pecorelle.
Prima che l’anno spirasse, le liete nozze furono benedette dal cielo col dono di una principessina, bella come un amore, che formò la delizia dei due giovani sposi.
Griselda volle da sé nudrir la bambina. “No, disse, non saprei resistere alle grida supplici della mia creatura; non saprei esser madre a metà della bambina che adoro.”
Il principe intanto, sia che fosse meno infiammato dei primi giorni, sia che si facesse vincere dai soliti umori maligni, crede di scorgere non so che doppiezza in tutte le azioni della sposa. La virtù di lei gli pare un tranello; la dolcezza un’ipocrisia; ogni buona parola un artifizio. Guarda, spia, sorveglia, sospetta, tiranneggia; le toglie le vesti sfoggiate, gli anelli, le collane, tutti i ricchi doni di nozze; la chiude in camera, ed è assai se lascia penetrare in questa un po’ di luce.
“Si vede, pensava Griselda, ch’ei mi vuol provare. Accetto volentieri la sua crudeltà e la volontà del Signore. Più si soffre, più si è felici.”
Ma il principe, non che commuoversi a tanta rassegnazione, diventa più cupo e sospettoso. “Tutti gli affetti di lei, pensa, son concentrati nella piccina; per questo è che non si cura di altro, ed ogni rigore le è indifferente. Per vederci netto, bisogna colpirla in quanto più le sta a cuore.”
Un giorno che Griselda con la bimba fra le braccia, le dava latte, accarezzandola e sorridendo, il principe entrò di sorpresa. “Vedo, disse, che le volete bene; eppure bisogna che ve la tolga, per educarla in tempo e perchè non prenda da voi qualche maniera un po’ goffa. Per buona sorte, ho trovato una dama fra le più distinte, che le insegnerà tutte le virtù che una principessa deve avere. Preparatevi, perchè tra poco verranno a prenderla.”
Ciò detto uscì frettoloso.
Griselda tace, piega la testa, rattiene a stento le lagrime; e quando vede arrivare lo spietato ministro degli ordini sovrani: “È forza obbedire” dice. Poi, presa e baciata la bimba, la consegna fra le mani di quell’uomo e le pare in quel momento di strapparsela dal cuore.
Sorgeva non lontano dalla città un monastero, famoso per l’antichità e per la regola austera che vi regnava. Alla pia badessa del luogo e alle cure delle suore fu consegnata la bimba, senza rivelarne la nascita, insieme con molti anelli di gran valore.
Il principe, che cercava di soffocare i rimorsi negli usati spassi della caccia, avea paura di riveder la moglie, come si avrebbe paura di rivedere una tigre cui fosse stato strappato il tigrotto. Eppure non trovò in lei che dolcezza, buone maniere, e perfino un affetto sincero come nei primi giorni della loro unione. A tanta bontà, più acerba sentì la punta del rimorso; ma cedendo ancora una volta, per debolezza di carattere, ai sospetti che lo torturavano, pensò di dare alla poveretta un novello colpo, e venne un giorno ad annunziarle che la bimba, pur troppo, era morta.
All’improvvisa notizia, poco mancò che Griselda non tramortisse; se non che, visto impallidire il marito, fece forza a se stessa, ingoiò le lagrime e non pensò ad altro che a rendergli meno amaro il dolore. Il principe, dal canto suo, commosso da tanta bontà, fu lì lì per confessare il vero, per dirle che la bimba era sempre viva e sana; ma gliene mancò il coraggio, e gli sembrò forse anche utile di prolungar la prova incominciata.
Da quel momento, l’affetto dei due sposi crebbe sempre più, e così si mantenne, senza mai stancarsi un momento, per quindici anni di fila.
La principessina intanto cresceva in senno e in ingegno; dalla madre aveva ereditato la bontà, dal padre il nobile contegno. Era anche bella come una fata; ed un gentiluomo di corte vistala per caso dietro la grata del convento, se ne invaghì perdutamente.
La principessa, per l’istinto che è proprio delle donne, si accorse della simpatia destata; e dopo avere un po’ resistito, per convenienza, la ricambiò con egual calore.
Il giovane era bello, valoroso, nobile; e già da un pezzo il principe pensava di darlo in isposo alla figlia. Fu dunque lietissimo di sapere che si amavano; ma il capriccio gli venne di far loro comprare a caro prezzo la maggior felicità della vita.
“Li contenterò, disse, ma bisognerà prima che il tormento ne accresca l’amore; eserciterò anche, nel tempo stesso, la pazienza di mia moglie, non già per geloso sospetto, ma perchè rifulgano agli occhi di tutti la bontà di lei, la dolcezza, il senno, tutti i pregi per cui la terra dev’esser grata al cielo.”
Dichiara dunque pubblicamente che, non avendo eredi ed essendo morta l’unica figlia avuta dal suo folle matrimonio, ei deve cercare altrove miglior fortuna; che la sposa scelta è d’illustre prosapia e che finora è stata educata in convento.
Figurarsi come questa notizia suonò amara ai due innamorati! In seguito, senza ombra di rammarico, egli annunziò alla moglie che era indispensabile separarsi; che il popolo, indignato de’ bassi natali di lei, lo costringe a contrarre più degne nozze.
“Ritiratevi, dice nella vostra capanna, dopo aver ripreso le vostre vesti di pastorella.”
Tranquilla e muta, la principessa ascoltò la sentenza. Il dolore la rodeva dentro, spremendole grosse lagrime dagli occhi, e rendendola più bella: così, a primavera, cade la pioggia mentre splende il sole.
“Voi siete il mio sposo e il mio padrone, rispose con un sospiro, e per terribile che sia la sorte che mi aspetta, vi mostrerò che la mia gioia maggiore è quella di obbedirvi”.
Andò in camera sua, si spogliò delle ricche vesti, riprese in silenzio gli umili abiti di un tempo, e di nuovo si presentò al principe, dicendo:
“Non so staccarmi da voi senza che mi perdoniate i dispiaceri che forse vi ho dato; posso sopportare la mia miseria, non già il vostro sdegno. Fatemi questa grazia, ed io vivrò contenta nell’umile mia dimora, senza che mai il tempo possa mutare il mio rispetto e il mio amore per voi.”
Poco mancò che tanta sottomissione e tanta magnanimità non rimovessero il principe dal suo proposito. Commosso, quasi piangendo, egli stava sul punto di abbracciarla, quando di botto la caparbietà la vinse e gli fece dire con asprezza:
“Del passato non mi ricordo più. Sono contento di vedervi pentita. Andate!”
La poverina parte all’istante in compagnia del padre addolorato. “Torniamo, dice, ai nostri boschi, alla rozza dimora; lasciamo senza rimpianto il fasto della reggia. Le nostre capanne non hanno tanta magnificenza, ma vi si trova l’innocenza, la quiete, il riposo”.
Torna al suo deserto, riprende fuso e conocchia e va a filare in riva a quel ruscello dove il principe l’avea trovata. Calma, senza rancore, prega di continuo il cielo che colmi lo sposo di gloria, di ricchezza, di quanto, possa bramare.
Ma il caro sposo intanto, volendo sempre più metterla alla prova, le manda a dire di venire a corte.
“Griselda, le dice, bisogna che la principessa cui domani mi fo sposo sia contenta di voi e di me. Aiutatemi dunque. Nessun risparmio, nessun ritegno; fate che in ogni cosa si manifesti la grandezza del principe, e di un principe innamorato. Mettete tutta l’arte vostra ad ornare gli appartamenti di lei; vi regni il fasto, la nettezza, la magnificenza; pensate che si tratta di una giovane principessa da me teneramente amata. Anzi, perchè meglio intendiate i vostri doveri, ve la farò subito conoscere.”
Arrivò in quel punto la giovane sposa, e parve più luminosa e sorridente dell’aurora. Griselda, al solo vederla, si sentì dentro un impeto di amor materno; si ricordò del passato e dei giorni felici. “Ahimè! pensò, la figlia mia, se il cielo l’avesse permesso, avrebbe la stessa età e sarebbe forse così bella”.
Un affetto vivo, prepotente, la prese per quella fanciulla; e non appena la vide allontanarsi, non potè fare a meno di dire al principe, mossa dall’inconscio istinto materno:
“Permettete, signore, ch’io vi faccia notare che l’amabile principessa da voi scelta per sposa, cresciuta ed allevata negli agi e nella porpora, non potrà sopportare, senza pericolo della vita, gli stessi trattamenti che io m’ebbi da voi. Per me, il bisogno, gli oscuri natali mi avevano indurita alle fatiche, sicchè potevo sopportare ogni sorta di male, senza soffrirne e senza dolermi. Ma a lei, che non mai conobbe il dolore, la minima parola un po’ aspra potrebbe far male. Io ve ne supplico, signore! trattatela con dolcezza”.
“Pensate, ammonì severo il principe, a servirmi come potete; non sarà mai detto che una semplice pastorella mi faccia la lezione e m’insegni i miei doveri”.
A queste parole, Griselda, senza aprir bocca, si ritira.
Arrivano intanto gl’invitati alle nozze; e il principe, in una magnifica sala, prima che la funzione incominci, parlò loro in questi termini:
“Nulla al mondo, dopo la speranza, è più ingannevole dell’apparenza, ed eccone una prova luminosa. Chi non crederebbe che la giovane principessa, mia eletta sposa, non sia felice e contenta? Eppure, non è così.
“Chi non crederebbe che questo giovane guerriero, vago di gloria, non sia lieto di queste nozze, egli che nei tornei riporterà vittoria su tutti ì rivali? Eppure non è così. “Chi non crederebbe che Griselda, giustamente sdegnata, non pianga e non si disperi? Eppure ella non si duole, consente a tutto, e nulla potè stancare la sua pazienza.
“Chi non crederebbe finalmente alla fortuna che mi arride, vedendo la grazia di colei che amo? Eppure se le nozze mi legassero, io sarei il più disgraziato fra i principi del mondo.
“L’enigma vi sembra difficile, ma due parole ve lo spiegheranno, due parole che faranno dileguare tutte le sventure or ora enumerate.
“Sappiate che la bella ed amata sposa è mia figlia, e che io la do in moglie a questo giovane signore, che l’ama ardentemente e n’è riamato.
“Sappiate pure che, vivamente commosso dalla rassegnazione della sposa fedele da me indegnamente scacciata, io la riprendo, per riparare col più fervente amore ai torti che le inflisse la mia crudele gelosia. Sarò più studioso di prevenire ogni suo desiderio che non fui costante a colmarla di amarezze; e se la memoria sarà eterna della mirabile rassegnazione di lei, voglio che molto più si parli della gloria onde io ne avrò coronata la virtù”.
Come ad un improvviso raggio di sole che squarci le nuvole nere della tempesta, s’illumina e ride la campagna, così in tutti gli occhi si dileguò la tristezza, cedendo il posto alla più schietta allegria.
La principessina si gettò alle ginocchia del padre e teneramente le abbracciò; la rialzò il principe e la condusse dalla madre, cui il soverchio della gioia toglieva quasi i sensi. Il cuore, costante e forte contro gli assalti del dolore, soccombeva ora alla letizia, e la povera Griselda non poteva che piangere.
“Basta, disse il principe, sfogherete a miglior tempo gli affetti. Riprendete le vesti regali e solenniziamo le nozze di nostra figlia”.
Si va in chiesa, si scambia fra gli sposi la promessa; e subito dopo seguono feste, tornei, giuochi, danze, musiche, banchetti. Tutti gli occhi si volgono a Griselda, tutte le voci esaltano la sua meravigliosa pazienza. E tale e tanta è la gioia del popolo, che si arriva perfino a lodare la prova crudele del principe bisbetico, alla quale si deve il perfetto modello d’una così bella e rara virtù, che tanto aggiunge pregio alla donna.

(Charles Perrault)

Distorta confusione

Stamani accedo a una playlist di Spotify che non ascolto mai perché davvero piena di canzoni, troppo. La playlist si chiama "aereo" e l'avevo tirata su per i viaggi lunghi. Mano a mano è diventata un'accozzaglia di roba mista che passa dai Pantera, ai Megadeth, a Neffa, a Gazzè, a Silvio Rodriguez, ai Propagandhi, ai Carlos Puebla Y Sus Tradicionales.

Poi è arrivata una canzone, una canzone che mi ricorda un preciso istante della mia vita.
Era l'11_02_2011, i nerd comprenderanno bene che si tratta di una data palindroma, ed è la data in cui io e Fry ci siamo incontrati.

Quando ci si conosce e comunque si passa un po' di tempo per la prima volta insieme (ammicca ammicca) si cerca sempre di essere in forma, bellissimi. Si evitano puzzette, si sta a dieta da qualche giorno prima per avere una pancia piatta e perfetta.

Io e Fry eravamo bellissimi, ecco.

Oggi riascoltavo quella canzone che comunque NON È la nostra canzone ma ricorda quei primi giorni.
E pensavo con malinconia che quel primo periodo non ho mai espresso al mondo quanto ci tenessi a lui, perché sapevo che Roccio mi leggeva che avrebbe potuto soffrirci. È stato come soffocare il mio impulso naturale a scrivere di quanto fosse bello quel momento per evitare di far soffrire qualcun altro. E così, probabilmente, ma forse anche no, ho reso infelici entrambi.
Questo è un pensiero molto femminile eh? Nella peggiore delle ipotesi a nessuno dei due importava cosa io scrivessi o no.
Però ci pensavo e ci ripensavo e mi chiedo, oggi, se quel primo momento io lo abbia goduto appieno oppure lo abbia un pochino nascosto.

Non che questo modifichi le cose, assolutamente.

Comunque in quel giorno palindromo io e Fry ci siamo messi insieme e quella domenica mattina abbiamo interrotto, dietro mio preciso ordine, qualsiasi coccola perché un mio amico andava in onda in RAI con questo pezzo e volevo assolutamente vederlo (il mio amico è il tastierista con la cresta e gli occhiali che si vede in controluce. Oggi fotografo, videomaker, ecc ecc).


Sì, lo so, tralaltro è stato lui a iniziarmi al metal e sentirlo fare questi pezzi mi ha letteralmente spezzato il cuore (scherzo Alelè, lo sai). Però per dire, sorridevo del fatto che la sapessi ancora a memoria.

Fry, sappi che ti ho amato tantissimo. E ti chiedo scusa se non sono riuscita a dimostrartelo al meglio. Ecco.
Con quegli otto anni di ritardo che bhe, lo sapete, io sono sempre sul pezzo.
È che a volte la vita si mette di traverso con un sacco di cose e io sono ancora in sindrome premestruale, e via così.

Detto questo, oggi ultimo giorno di lavoro e di contratto per tanti colleghi, non hanno rinnovato due persone del mio settore.

Il regalo aziendale di Natale, devo dirlo, è stato davvero pessimo.

20 dicembre 2018

La tenacia degli sconosciuti.

Ormai due anni fa circa ho acquistato la mia mirrorless. Ho venduto la Canon EOS 7D a cui ero molto affezionata, ma mi servivano i soldi per il nuovo corredo.
Mi affeziono agli oggetti, mi ricordano momenti, situazioni, persone.
La comprai da Ollo store che ha sede a Empoli, ai tempi mi ero appena separata da Roccio ed eravamo quella situazione tremenda in cui si vive insieme ma boh, e io tempo un altro paio di settimane e avrei lasciato casa.

Non ho mai incontrato una persona onesta come Roccio. Col mio misero stipendio pagavamo l'affitto, che a Sesto Fiorentino è forse più caro che a Firenze, e col suo stipendio facevamo il resto. Spese, varie ed eventuali, metteredaparteisoldi.

Dopo due anni e mezzo di convivenza, invece di mandarmi via a calci in culo come avrebbe fatto chiunque, senza nessuna mia richiesta, decise di dividere a metà i soldi che erano sul suo conto. Perché i miei erano stati letteralmente mangiati dall'affitto della casa.

Dai, su, chi altri l'avrebbe fatto? Fanculo stronza, vuoi lasciarmi a piangere da solo? Bene, allora ti meriti povertà e miseria.

Del resto mi prendo insulti senza colpo ferire, a volte.

Roccio si è guadagnato il soprannome de "Il Buon Roccio" perché penso, davvero, ad oggi, che sia uno degli uomini più buoni che abbia incontrato.

Andammo insieme a Empoli a prenderla, ero sconquassata per tutto quello che stava accadendo, felice per la macchina fotografica.

Venduta.

Detesto vendere le cose, preferisco regalarle. È come dire a qualcuno "Ok, non mi importa quanti soldi valga, questo oggetto ha una storia, ora te la racconto. E con te avrà un'altra storia, magari un giorno lo regalerai e via così, e diventerà sempre più prezioso, invece di svalutarsi come vuole il mercato, perché avrà su di sé tantissime storie da raccontare".

Il fortunato futuro possessore della Canon è un ragazzotto alto e grossissimo, una specie di orso Yogi, con le guance rosse come un accanito bevitore di vino e la barbetta corta, finta incolta.
L'ha provata fuori dalle mura di Cömo, ne è rimasto soddisfatto.
Stretta di mano, evviva evviva, lucciconi perché se n'è andato via un oggetto a cui tenevo, ecc.

Qualche giorno dopo mi scrive. Vorrebbe la scatola e le istruzioni.
Spedisco le istruzioni ma la scatola è a Torino, quindi nada.

Qualche settimana dopo mi scrive, come va, come non va.
Rispondo educatamente.

E così via, ogni tanto, in media una volta ogni 2-3 mesi scrive "Ehi ciao come va?". Credo sia un copiaincolla perché non gli ho risposto le ultime tre volte ed è sempre lo stesso messaggio.
In genere rispondo a tutti ma ogni volta che rispondevo col MIO copiaincolla "Io tutto bene e tu?" partiva con la descrizione delle sfighe più impensabili. E al lavoro l'avevano mandato via, e si era preso una storta, e una storia d'amore finita male, eh madonna.

Così appena mi scrive, senza nemmeno aprire il messaggio, tengo premuto il mio orrendo pollice opponibile e "archivia chat" così non resta nemmeno in elenco.

Stronza? Sì, vi siete persi qualche post fa.

Però ammiro tantissimo questa tenacia, cioè io se una persona non mi caga, uno sconosciuto intendo, 'fanculo e chi se ne frega. E ora, se ci penso, mi scazza ancora di più sapere che lui abbia quel pezzo di storia.

Cercherò di non vendere più gli oggetti importanti.

Ah se stai leggendo questo post, non penso, ma se lo stai leggendo, sì tu, proprio tu, mioddio cerca di essere un attimo più positivo. Magari finisce anche che riprendo a risponderti.

E ti prego, fa' un corso di fotografia. Ti prego.

(sì sono stronza ma sono in sindrome premestruale, odio tutti, e più di tutti me stessa).

Ma poi l'avevo mai scritto che il buon Roccio si è sposato? Questa è un'altra storia. E dall'unica foto che mi hanno mandato sembrava davvero felice e io non posso che essere contenta per lui.
Sapevo che non sarei dovuta tornare su Facebook.
Sono serena come quando ieri ero sotto la neve. Così.

19 dicembre 2018

La mia macchia di Rorschach

Torniamo a parlare del mio seno, perché no.
La cicatrice è ancora una macchia indefinita e rossa, tanto indefinita che se fossi single mi approccerei a un uomo con questa frase: "Ti piacciono le macchie di Rorschach? Ne vuoi vedere una?"
I più astuti potrebbero rispondere: dimmi quello che vuoi ma io ci vedo un seno.
Sbagliato, troppo facile (però mi piacerebbe affrontare il test con uno psicologo e dire "non so lei ma io ci vedo una macchia informe").
Il tutto perché Alvaro mi ha chiesto, in chat Comune, come va la ferita.
Aggiornamento finale: l'ultima crosta è caduta un mese fa circa, ero a Como.
Non ho il coraggio di pensare di rifarmi il seno perché l'idea di restare con una ferita ancora aperta per altri mesi un po' mi distrugge.
"Eddai e rifattele 'ste bocce", dice AlessanFro.
Comincio a scherzarci anche io, è un fatto positivo.

Dado oggi mi manda un messaggio vocale: "Non ti ho mai sentita così contenta da quando ti conosco, si legge dai messaggi che scrivi, dai post sul blog, è una scia di positività bella, davvero bella".

Ho ricominciato il mio periodo di disintossicazione da Facebook, ho disattivato l'account e tornerò, penso, tra un mese, come sempre.
Sembra che non si esista se non si è presente su quello specifico social. "Perché non vedo più il tuo commento al mio post?".
La verità è che nessuno vorrebbe mai essere bloccato.
Black Mirror insegna, si diventa invisibili.

Sono in pausa pranzo, ho deciso di dedicare questi pochi minuti alla scrittura più o meno ogni giorno, che a casa sono stanca e la sera mi vengono pensieri un pochino più tristi.
Ho cominciato un'attività che si chiama "Dormi un po' alla cazzo di cane" e funziona così: alle 21 (sì leggete bene), più o meno crollo. Se non è alle 21 riesco a tenere gli occhi aperti massimo fino alle 22.30. Crollo pesantemente col pensiero "Oh sì, mio dio, cazzo, sento che stanotte dormirò alla grande".
Poi si accavallano pensieri vari, belli, brutti, medi, inutili.
A mezzanotte riapro gli occhi che non ho più sonno. Fino all'una cerco di fare qualcosa, guardo qualche minchiata su Netflix: nulla che faccia piangere e nulla che accenda il cervello.
Verso le 2 sono pronta a chiudere di nuovo gli occhi. Da lì a dormire è sempre un terno al lotto. Mi sveglio al mattino come se un caterpillar mi avesse schiacciato la faccia, col solito pensiero "E' già il giorno dopo?"
Non faccio colazione, mangio solo la mia consueta pastiglia per la tiroide, mi lavo, mi trucco, mi vesto, con la matematica precisione di un cecchino.
6.45 in teoria sono già in bagno. Lavaggio, truccaggio, deodorantaggio, se va bene alle 7.15-7.20 sono fuori. Recupero mate (contenitore e foglie), schiscetta pranzo e varie ed eventuali e infilo tutto nello zaino. Lo porto il libro? Ma tanto ultimamente sono un'ameba cerebral e non leggo mai.
Ma sì dai, perché privarmi di quel chilo in ipù che tanto fa bene alle mie spalle doloranti.
Infilo tutto nello zaino.
Badge? C'è.
Cuffie da lavoro? Yes.
Chiavi casa? Ok.
Mi vesto infilando alla rinfusa sul mio corpo vestiario messo a caso. In genere stratificato come una sfoglia (comincio ad avere fame).
Maglia a maniche corte, maglia termica, maglione.
Calzettoni antisesso, pantaloni, stivaletti.
Prendo le cuffie Bluetooth, il cellulare. Via di sciarpa, cappotto.
Sono le 7.30-7.35.
Raggiungo il bus che parte alle 7.45.
Controllo attentamente il traffico. Se c'è molto traffico scendo a prendere il 2, altrimenti proseguo per il 3.
Arrivo al lavoro tra le 8.45 e le 8.55.
Ho ancora gli occhi incollati e ho molto sonno.
In genere gli amorevoli colleghi mi salutano con un "Ma com'è che sei sempre più sconvolta?"
Sfoggio il mio sorriso migliore "'ngiorno".

E via così.
Se sono fortunata, in pausa pranzo Elisa, la mia collega, mi fa un trattamento Shiatsu, subito dopo mi gira la testa.
Se sono sfortunata scrivo qui.
(Oggi come sarà andata secondo voi?)

Stasera mi trascinano a una serata di cabaret, voglio bene alle mie amiche ed è tanto che non ci incontriamo, ma mi piacerebbe infilarmi le ciabatte, il pigiama e ripetere il ciclo di non sonno.

(inconvenienti dello scrivere in pausa pranzo. Collega che conosco poco, arriva "che fai?"
"scrivo"
"uh lo sai anche io scrivo e vorrei scrivere un libro"
"ah sì"
diversi bla bla dopo - "cavoli devo timbrare l'ingresso".
Fine pausa. Post non terminato, ve lo beccate così, con tutti gli errori del caso).
Io non riesco a dormire.
Birra?
Ma sì, birra, va.

18 dicembre 2018

Lasciate come avete trovato.

Non è possibile seguire sempre le indicazioni alla lettera. Ad esempio, quando leggete la scritta "Lasciate il bagno come lo avete trovato" dubito che ci riusciate.
Un segno del vostro passaggio ci sarà sempre.
Io sui bagni sono abbastanza categorica, li lascio sempre meglio di come li ho trovati.

Vladimir Luxuria attraversa il corridoio aziendale senza prestare attenzione alla mia camminata non proprio lineare (due mezzi bicchieri di spumante - sì, un bicchiere - e svariati cioccolatini liquorosi mi hanno lasciata provata).
La saluto con un cenno del capo, non la conosco, come non so chi sia il 90% della gente che popola questo luogo. Eppure mi conoscono, ho sempre un nomignolo ovunque sia stata e tutti mi salutano. Persino alle superiori ho sentito dire da una sconosciuta dietro di me, in centro, "Ehi la vedi quella ragazza? Viene nella mia scuola!".

"Lasciate il bagno come lo avete trovato".
In questi giorni di ansia e speranze, in cui mi sono trasformata in un cucciolo di Labrador con ansia da separazione (e le pantofole da rosicchiare dove sono?) rifletto sulle impronte lasciate sugli esseri umani.
Quanto ho lasciato negli altri? Quanto hanno lasciato in me?
Stringo in mano il mio cuore con il terrore che possa di nuovo scappare. In questa morsa non riesco a muovermi. Ecco la mia ansia. 
A volte la strategia migliore è stare immobili, e per me è una grande forzatura. 

Ma supererò anche questa. Non da sola, questa volta.

Non lascerò il bagno come l'ho trovato, è impossibile, lo so.

Cercherò di togliere i segni più evidenti, del mio passaggio e del passaggio di altri. Sicuramente qualcosa si anniderà negli angoli, dove non posso arrivare. Senza accorgermene si noterà in controluce il carro armato dei miei stivali, tatuato sul pavimento, nonostante abbia camminato in punta dei piedi.

Segreto: ho molta, molta, molta paura.





16 dicembre 2018

Amata phegea



Tra i tanti sogni di stanotte, alcuni terrificanti fatti di urla, angosce e ansie pesanti, in un clima africano dove le teste mutavano in scheletri scavati dalla tristezza, ho sognato una sfinge.
Da tempo sogno di vedere dal vivo la Daphnis nerii.
Ma questo è stato l'anno della Mimas tiliae.
Come il messaggio portato da un lontano mondo fatato a cui non ho voluto dare retta, la Mimas tiliae è stata riconosciuta per una foto mandata. Non sapevo cosa fosse, ma mi è stato chiesto il riconoscimento e io, che non conoscevo le sfingi, alla fine l'ho trovata.
Non l'avevo mai vista dal vivo ma dopo quella foto si è fatta trovare ben due volte.
Vorrei ricordare i precisi istanti emotivi in cui si è palesata per comprendere se, davvero, si fosse trattato di un segno che ho cercato di non curare.
Non credo nei segni.
A volte il collegamento erroneo tra fatto e causalità, dovuto a un segno divino o altro, porta a conclusioni devianti.

Sta di fatto che non avevo mai visto nemmeno una sfinge, quest'anno due, ed entrambe Mimas tiliae.

L'ho guardata con un misto di stupore e sofferenza, come a ricordarmi un'immagine che volevo allontanare.

Desideravo la Daphnis nerii perché sorella più colorata della Mimas, più bella e accesa.
Ma.
Questa notte un'altra sfinge è venuta a farmi visita nei miei sogni.
Ali grandi e nere, a pois bianchi, una sorta di Amata phegea ma con ali enormi.
Amata, un caso, forse.

Lei l'ho anche fotografata.


Nel commento parlavo dell'amico libraio, della sua sofferenza che è comune e forse, solo forse, escludendo comunque l'eventuale casualità che sempre è presente, indica un percorso simile, fatto dalle nostre teste per sopravvivere e andare avanti.

L'Amata phegea modificata, più grande, del mio sogno, era nascosta in un anfratto di roccia. Era così grande da prendere tutto il palmo della mia piccola mano. Si è lasciata cogliere, nonostante l'istinto di sopravvivenza probabilmente le avesse suggerito di scappare ed è rimasta lì, così, ad attendere non so cosa, fiduciosa di non essere schiacciata e uccisa. Dopo una sosta che sembrava infinita è volata via, libera. Non so cosa significhi, ma mi ha messo serenità quindi è un messaggio sicuramente positivo.

Ora però ho in mente una poesia di Poe che quando ero piccina e avevo 12-13 anni mi piaceva tanto.

Un sogno dentro un sogno 
Questo mio bacio accogli sulla fronte!
E, da te ora separandomi,
lascia che io ti dica
che non sbagli se pensi
che furono un sogno i miei giorni;
e, tuttavia, se la speranza volò via
in una notte o in un giorno,
in una visione o in nient' altro,
è forse per questo meno svanita?
Tutto quello che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno. 
 
Sto nel fragore
di un lido tormentato dalla risacca,
stringo in una mano
granelli di sabbia dorata.
Soltanto pochi! E pur come scivolano via,
per le mie dita, e ricadono sul mare!
Ed io piango - io piango!
O Dio! Non potrò trattenerli con una stretta più salda?
O Dio! Mai potrò salvarne
almeno uno, dall'onda spietata?
Tutto quel che vediamo, quel che sembriamo
non è che un sogno dentro un sogno?

Ci sono dei momenti in cui vorrei non essere quella che sono. In cui, guardando i torti fatti e subiti, vorrei dimenticarli con una passata di spugna.
Come l'esercizio di matematica errato, scritto su una lavagna d'ardesia e presto dimenticato con un colpo di cimosa.
La polvere resta ma tutto svanisce in fretta.

A è l’attrazione per il partner, B il piacere psicologico della sua compagnia, C il desiderio di intimità con lui/lei, D il bisogno di essere accettati dal partner, E la paura di essere abbandonati da lui/lei. A ognuna di queste variabili bisogna attribuire un valore da 1 a 10 e poi fare il calcolo.

Alla fine il trucco, e qui sta la differenza, non è dimenticare ma perdonare e perdonarsi, perdonarci.
Ecco la mia cimosa: possiamo riscrivere un esercizio di matematica complesso e riformularlo meglio. Gli errori non mancheranno, ma come due studiosi sanno, senza la collaborazione non si può arrivare alla soluzione di un esercizio complesso.


15 dicembre 2018

Ground zero

Questo anno è stato tosto.
Così tosto che ogni giorno bacio il mio cane, sperando che non mi abbandoni anche lui, vecchio com'è.
La ferita fisica, le ferite interiori, le incomprensioni.
Ci sta che anche io non abbia capito niente, che abbia costruito un fortino per paura, una paura comprensibilissima.
Ma il terremoto e le varie scosse di assestamento di questi giorni forse stanno portando a termine tutto questo per la celebrazione di un nuovo inizio.

Un inizio decisamente faticoso perché voluto, nonostante le scivolate sul sangue versato dalle nostre ferite, in parte autoinflitte, in parte inflitte a vicenda.

Non avevo mai vissuto una situazione così intensa e dolorosa perché in realtà gli inizi sono sempre stati belli, per me. Solo con gli anni e la scelta di percorsi diversi ci sono state separazioni irreparabili.

Oggi no: un vaso rotto dall'inizio e calpestato più e più volte dai nostri passi, cercando adesso l'oro migliore per ripararlo, pagandolo a caro prezzo, usando l'antica tecnica del kintsugi.
Il vaso che verrà fuori io già posso vederlo: è delicato ed è decorato dall'oro rosso cercato con grande difficoltà, le vene sono molteplici, al sole brilla di luce propria e le tessere costruiscono un mosaico così bello che fa quasi male a guardarlo.

Abbiamo aspettato tanto fino quasi a perderci del tutto.

Questa è la nostra merda.
Dalla quale nasceranno splendidi fiori.

dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fiori 

Con questa frase, una perla della musica d'autore, si chiude uno tra i brani più rappresentativi di Fabrizio De Andrè. I diamanti sono il simbolo della società borghese, perbenista, conservatrice. Da loro non potrà nascere mai nulla. Perché se  simbolicamente i fiori rappresentano il futuro, è solo tramite chi ha saputo vivere la miseria e le sofferenze della vita, che si può costruire qualcosa di migliore.
(fonte: http://cosavuoldireunacanzone.blogspot.com/2012/08/fabrizio-de-andre-via-del-campo.html)

10 dicembre 2018

D(e)addy

Oggi, con un cliente:
"[...] la contatto per il rinnovo contrattuale stipulato con noi il 4 dicembre"

Il 4 dicembre.

Era l'anniversario della morte di mio padre ed è passato, per la prima volta dopo 18 anni, in sordina. Sepolto da altri pensieri.

Allora ho deciso, per sentirmi un po' meno in colpa, di scriverne un post.
Sì, sì, ancora su mio padre.
Ma sarà un post estremamente sincero, e quindi cattivo. Questo per evitare di scrivere le solite piagnucolose frasi che si usano in questi momenti. Io sono una stronza.
I am a bitch.
Più o meno come il 99% delle persone, ma almeno lo ammetto.

In realtà mio padre non mi manca. Era una persona molto infelice che sapeva far ricadere la sua frustrazione su tutti noi, bevendo moltissimo, a tratti diventando violento.
E fastidioso.
Arrivava a casa che non faceva che parlare, straparlava, e quando non ne potevamo più creava quel favoloso momento di tensione dettato dallo sbattere il piatto sul tavolo e andarsene in camera da letto lamentandosi ad alta voce (leggi "urlando").
Questo quando era in buona.
A 14 anni ho cominciato a intuire che fosse solo infelice e un po' mi ha fatto pena.
Sì, lo so, è pesante da leggere, la sincerità è sempre pesante.
Una famiglia da mantenere, dei figli che probabilmente non voleva, un lavoro in fabbrica pesante. E l'alcol come rimedio.
Non aveva molti amici, a parte quelli del bar.
Pensate a cosa voglia dire andare via molto giovane dal proprio paesello in cui si è tutti amici e trasferirsi nella grande città per lavorare. Senza nessuno.
È stato coraggioso come molti genitori di quegli anni. Penso abbia sopportato il razzismo dilagante del tempo contro le persone del Sud.
E poi è stato da solo finché non ha trovato un lavoro che potesse permettergli di mantenere anche mia madre.

Quando è arrivata mia sorella era contento, le portò dei fiori in ospedale.
Non so se dopo di lei, o dopo di me, ha cominciato a bere.

Mio padre non era bello (e se dico che siamo due gocce d'acqua ho detto tutto), ma era un maschio Alpha dei suoi anni. Magro e pantaloni a zampa.
Madre era la bella del paese. Amici di famiglia la ricordano come la più bella del paese. Maschi che le facevano la corte, poi è arrivato lui, lo spaccone, che quando è stato rifiutato ha avuto l'ardire di presentarsi a casa di lei per chiederla in sposa ai genitori.

Sì, cose di altri tempi.

Padre spesso sedeva su una sorta di davanzale di una bassa finestra all'esterno del bar, fumando una sigaretta. Non riesco a ricordarlo senza tosse.
Io quando ero costretta a passare davanti al bar Da Filippo, cambiavo marciapiede. Non mi andava di fermarmi da lui. Ma se per sbaglio gli sguardi si incrociavano mi faceva segno con la mano di andare da lui.
Mi sedevo accanto a lui e non ricordo se mi faceva domande, o se semplicemente stavamo zitti.

Era un tempo interminabile ma la verità è che non sapevo cosa dirgli. A volte si arrabbiava per niente.

Pensavo che se lui non aveva rispetto per noi, noi non potevamo averlo per lui.
Questo, penso, non faceva che alimentare la sua frustrazione.

Avevo altri metri di paragone, vedevo il rapporto delle mie amiche coi loro padri e io mi sentivo un'aliena. Non coincideva nessun punto, se non il DNA in comune con lui.
Le mie amiche avevano una persona da abbracciare la sera, con cui confrontarsi, che le supportasse.
Io non potevo contare su di loro, forse su mia sorella quando è cresciuta un po'.

Mi prefiguravo la sua morte. Non che la desiderassi, ovviamente, eh? Ma me la immaginavo. Non se ne parlava mai a casa ma lui non è mai stato bene. Quelle visite per l'invalidità che boh. E stava sempre a casa in mutua a un certo punto.
E la tosse continua.

Ma se devo essere sincera ho sofferto quando è morto. Non per la sua mancanza, ma per le mie mancanze. Che tanto lui era fatto così.
Uno stronzo come il 99% delle persone.
E io non sono stata una brava figlia, né per lui, né per lei.
Avrei forse potuto capire di più, mi dico. Ignorare quelle punte di violenza, o mettermi in mezzo se necessario.

Non ho mai fatto niente. Ho lasciato che tutto si svolgesse davanti ai miei occhi senza muovere un muscolo, come un brutto film con un finale scontato.

Non voglio giustificarlo, non ci tengo. Non voglio pensare "Oh mio Dio poverino è morto quel brav'uomo di Padre". No. Per niente. Nessuno è buono (leggi sopra), o forse tutti.

Ma quando non si possono modificare le situazioni, e soprattutto quando ci troviamo a cozzare contro muri di cemento armato, tanto vale modificare la nostra reazione alla botta. Che quella non cambia eh? Sempre dolorosa è.

Ricordo un unico atto di tenerezza.
A un certo punto durante la mia prima malattia ha battuto dolcemente il cinque sulla mia mano destra e tenendola delicatamente mi ha detto, con le lacrime agli occhi "Dobbiamo farci coraggio".
Anche lì non ho mosso un muscolo, sono stata in silenzio a osservarlo. Non una lacrima.
Un'altra figlia forse lo avrebbe abbracciato, scorgendo l'uomo pieno di difetti che mi aveva concepita sparire dietro un'umanità inaspettata.
Ma io no, I am a bitch, sempre.

Penso che a modo suo mi volesse dire che era spacciato, e sarebbe morto prima del tempo.

Questo era mio padre, un uomo, uno stronzo come tutti. Che arrancava per arrivare a fine mese, che non voleva una famiglia ma disgraziatamente la manteneva, con due figlie che non lo rispettavano e una moglie che aveva amato un tempo ma ora chissà.
Troppo crudo? No.

La morte fa parte di un ciclo naturale, che non è bello o brutto. È la Natura. Malattia, morte, nascita e crescita in un caos apparente ma ordinato se visto alla giusta distanza.
Come un quadro impressionista che sembra confuso se guardato a distanza ravvicinata ma assume forme bellissime se solo possiamo allontanarci.

Questo per dire che con questo dicembre ho chiuso con le ricorrenze inutili.
Ricordare nascite o morti, che senso ha?

Bisogna ricordarsi ogni giorno sacrosanto della vita e del tempo che questa natura ci ha concesso.

Non celebrare i morti.
Celebrare la vita.

07 dicembre 2018

Amatevi

Ogni volta che mi arriva un messaggio è un colpo.
Una bastonata sullo stomaco. Mi formicolano le estremità, comincio a sudare.
Sto male.
Mi manchi.

Io penso si sottovaluti il significato di questa parola.

Mi manchi ma non sei qui.
Mi manchi ma non con me.
Mi manchi ma non sei tu.

Tra i complimenti, qualche aggiustata di tiro.

Eh ma fumi la pipa.
Eh ma sei una bandieruola.
Eh ma non sopporto che controlli le cose su facebook.
Eh ma sei andata dalla cartomante.
Eh però non mi piace quando bestemmi.

No.

Ieri guardavo una stand up comedy di Daniel Sloss (finora il mio secondo preferito), che è un comico un po' dark, molto pungente. A un certo punto ha detto una cosa che mi ha dato un'ulteriore bastonata.

Amatevi.
Sì, banale.

No, amatevi al 100%. Perché se voi vi amate al 20%, incontrerete una persona che vi ama forse al 30% e penserete "Oh mio Dio quanto mi ama!". E non è nemmeno la metà.
Amatevi al 100% perché la persona che incontrate dovrà amarvi in tutto e per tutto. Dovrà dimostrare di amarvi al 110% perché altrimenti non sarà abbastanza.
Dovrà amare la mia pipa, il mio modo di essere, incoerente a volte, ma sicuramente curioso, la mia passione per gli insetti, le mie insicurezze e paure che, credetemi, sono tante, amare il mio desiderio di viaggiare e scoprire, il mio essere inconcludente, i miei momenti tristissimi al pari di quelli gioiosi, dovrà sopportarmi cantare sotto la doccia e le caterve di libri che prendo, dovrà amare il sentirmi suonare (male) tutti i miei strumenti, amare il mio desiderio di spazi e di libertà, il mio desiderio inespresso di essere incoraggiata.

E. dice che soffriamo perché non siamo fatti per stare da soli.
No, io dico che soffriamo perché non ci amiamo abbastanza.

Ma in queste condizioni il potere manipolatorio delle persone che ci circondano è immenso.
Perché se incontro, oggi, chi mi ama al 30% ha ancora il potere di cercare di cambiarmi per poi riscoprirmi, io, a essere una persona che detesto, solo perché non sono più io.

Io sono quella che parla di cazzi col collega, quella che bacia l'amico gay, quella che balla coi vecchi nei locali, quella che va a vedere i bisonti nella foresta, quella che bestemmia.

E non voglio più sentirmi dare dell'inaffidabile solo perché chi mi guarda vede riflessa un'immagine distorta di sé.

Che non sono io l'inaffidabile.
Ma chi, frequentando un'altra persona, mi dice che gli manco.
E se fosse capitato a me, mi dico? Se fossi io quell'altra persona? Come penso che sarebbe andata a finire? Quanti mi manchi inviati ad altri numeri?
Tra i miei tantissimi difetti ce n'è uno che danneggia soprattutto me stessa, ovvero la capacità di dare TANTISSIME possibilità. Non c'è limite alla mia distruzione in questo senso. Ma riguadagnarsi la mia fiducia è dura.

Anche perché perderla è davvero una missione impossibile.

Canzone del giorno: Skunk Anansie Twisted (Everyday Hurts)

05 dicembre 2018

Come sopravvivere alla cena aziendale

Ieri sera abbiamo deciso di incontrarci tra colleghi.
È stato sfinente organizzare, non per me eh? Io ho solo creato il gruppo whatsapp e immediatamente dopo ho terminato il mio lavoro silenziandolo per un anno.
In verità ho provato a organizzare qualcosa ma ci ho rinunciato nel giro di 10 minuti.
Per fortuna una ragazza ha preso in mano la situazione nel gestire questi 20 e passa ragazzini nel corpo di adulti (non guardate me, io ho sempre il corpo di una ragazzina).



Una mia collega che ormai è amica, posso dire, mi ha invitata a casa sua per farci un aperitivo prima della cena e forse abbiamo esagerato con il Martini e alla cena eravamo già belle cariche.
Non troppo, diciamo che eravamo allegre.

Prima che possiate dire qualcosa, ero sobria. Solo un po' più allegra di quanto dovrei essere, visto e considerato tutto. Ovviamente io seduta accanto al damerino più bello del back office.
Quando ci siamo scattati una foto insieme si è girato e ci siamo baciati, a fior di labbra.
La pubblicazione della foto online (che siamo bellissimi, non c'è che dire) ha dato luogo a una serie di messaggi privati occhieggianti del tipo "Eh ma allooooraaaaa, non mi racconti niente?" o "EVVAI FINALMENTE".
No.
Io e L. abbiamo un interesse comune che ci impedisce di essere compatibili.
Baciarlo è come baciare la mia migliore amica, ecco.
Potremmo stare a letto nudi che non accadrebbe nulla.
Altri chiarimenti?

Mi ha fatto sorridere però.
"Ma sicura? Me pareva un bacio appassionato"
Ahah. No.

Per intenderci:



Nulla di nuovo all'orizzonte, quindi. Mi spiace, deliziosi amici che avete battuto un cinque immaginario con la sottoscritta.
Tinder rimarrà l'ultima spiaggia, ma ultimissima. Tipo che o lo installo o divento proprietaria insana di 20 gattini.




Parlando con L dicevo che servirebbe un'app per incontrare gente nuova non come Tinder, che è finalizzata allo scopaggio, ma qualcosa per fare due chiacchiere e conoscere persone nuove (donne o uomini).
"Eh ma Tinder funziona uguale eh?"
No.

Da bionda tinta posso dire che un po' mi sento Bridget Jones, senza la ciccia e molto meno figa?

Mi piacerebbe scrivere una rubrica delle persone che incontro. E per ora senza l'aiuto di Tinder. Anche perché nessuno scopaggio all'orizzonte, mi verrebbe l'orticaria al pensiero.
Però sappiate che se vi interesso un po', ma basta un po', appartenete a una delle due seguenti categorie: gli impegnati o i disagiati.

Poi c'è anche la combo con entrambe le cose. In quel caso vincete un buono per una mia sparizione da qui all'eternità.

Ho in mente un paio di foto da fare per distrarmi da questa meravigliosa vita di merda (che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior - da Leroy Merlin mi han venduto letame fallato) anche perché da due settimane ho un dolore al collo che mi impedisce di piegare la testa verso il basso.

E io detesto il dolore fisico, è una compagnia indesiderata, come quel parente sconosciuto che ti viene a trovare quando stai male. Già, ripeto, la vita fa un po' pena, poi ti si presenta un dolore fisico e tu pensi: Ma cazzo no, anche questa no.

Per fortuna, visto lo stato perenne di povertà in cui mi ritrovo perché prenoto viaggi a caso (da qui a Febbraio sono a posto), la mia collega dell'aperitivo (operatrice Shiatsu) mi regalerà per Natale qualche trattamento.

So che la base del collo è dove lo stress si accumula e le tensioni muscolari diventano poi dolori. E io sono ancora un bel po' a pezzi.
Nonostante tutto sono riuscita ad andare un paio di pomeriggi da Leonard per pulire gli insetti all'interno delle teche.
Sappiatelo, è una cosa difficilissima. Ho tenuto le chiappe strette tutto il tempo.
Sfili l'ago dalla base della teca con l'insetto attaccato. Lo posizioni sotto al microscopio tenengo l'ago dalla base e lo spazzoli con un pennellino asciutto facendo attenzione. Antenne e zampe si staccano con una facilità micidiale. In queste due giornate ho fatto un po' di stragi di tarsi e antenne, ma molti insetti sono distrutti dagli antreni ed è come pulire un guscio vuoto e fragilissimo. Una volta tolte fibre, exuvie di antreni, e varie ed eventuali con un altro pennello intinto nella benzina avio si bagna tutto l'insetto. Qui se c'era qualche parte incollata probabilmente si scollerà e bisogna reincollarla.

Ho la fortuna di avere la mano ferma ma sappiate che incollare l'antenna di un insetto non è una cosa semplicissima.

Poi quando ti cascano gli occhi fai una pausa. Ma in verità non vorrei mai staccare, mi piace troppo. Ed è per quello che faccio pausa quando mi cascano gli occhi o sto per svenire per l'inalazione di benzina avio. A volte Leonard mi costringe e io "No, no lasciami dai miei insettini, voglio finire la scatola".





Finirà che non installerò Tinder ma al posto dei gatti mi ritroverò piena di teche con insetti morti, e non so cosa è meglio.

[non ho riletto, sono stanca, ho male, ciao]

Canzone del giorno: The Cardigans My Favourite Game

02 dicembre 2018

Invictus

Tu sei forte Carla
Hai preso un sacco di calci
E ne prendi ancora
La tua indistruttibilita' mi stupisce
Sempre


Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo da un polo all'altro
Ringrazio qualunque dio ci sia
Per la mia anima invincibile.

Nella stretta morsa delle circostanze
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi avversi della sorte
Il mio capo sanguina ma non si china.

Oltre questo luogo di rabbia e lacrime
Incombe solo l'orrore della fine.
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto sia stretta la porta,
Quanto impietosa la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

(Invictus, William Ernest Henley)

Grazie Dado.

29 novembre 2018

La mia (s)quadra

Oggi ho lavorato 9 ore e mi sono ricordata il significato di squadra.
A parte che in questi giorni ho ricevuto messaggi vocali molto carini dai miei colleghi "Carla, ci manchi, quando torni?" (sono stata impupata 3 giorni) e oggi avevamo un obiettivo record che a detta di tutti non avremmo mai raggiunto.
Eppure quando la responsabile ha chiesto chi fosse disponibile a restare un'ora in più oltre le 4 ore di straordinario già concordate, pochi sono andati via. Più che altro per i figlioli, penso, ma anche tra chi li aveva qualcuno è riuscito a smollarli al familiare libero di turno. E alla fine, indovinate, ce l'abbiamo fatta.

Io non ho avuto la fortuna di fare sport. Ma nella sfortuna sono stata comunque fortunata.
Leggi pure "fottesega dello sport, io". I miei compagni sfoggiavano belle medaglie per le gare di nuoto, coppe per le partite di pallavolo e/o calcio e/o basket.
Per fare sport servivano soldi e qualcuno che ti venisse a riprendere la sera.
Io non avevo né l'una né l'altra cosa.

Così quelle poche volte che a scuola organizzavano partite di pallavolo o altro ero scoglionata due volte. Non sono mai stata competitiva, e sono sempre stata l'ultima a essere scelta per formare una squadra di qualsivoglia sport.

Non so se siete stati i classici sfigatelli come me, ma in quei frangenti io penso che i ragazzini non riescano a fare gioco di squadra. Pur di vincere gli sfigati vengono lasciati in fondo, senza dar loro nessuna possibilità di miglioramento. E in questo probabilmente gli allenatori fanno la loro parte. Dico male? Chissà.

Dai, siate sinceri, avete passato la palla al compagno che è stato scelto per ultimo, pur sapendo che magari non avrebbe azzeccato un tiro? Pur sapendo che vi avrebbe tolto il punto che vi avrebbe portato alla vittoria?
Io ero quel compagno. E avrei avuto anche gli occhiali se non mi fossi categoricamente rifiutata di portarli fino a che non mi sono resa conto di salutare (o no) la gente a caso per la strada (quindi parecchi anni dopo).

Una delle mie amiche era la persona più competitiva che conoscevo. Anche a basket, dove il passaggio della palla è essenziale, lei era capace di correre da una parte all'altra del campo da sola, senza fare alcun passaggio e fare canestro.
Era snervante.

In genere, quando accadeva, io mi sedevo annoiata in fondo al campo attendendo la fine della partita, con l'insegnante di educazione fisica che diceva "Dai Colombo, almeno sta' in piedi".

Non avevo medaglie, avevo solo voglia di giocare a palla prigioniera scavalcando il recinto per entrare nel campetto della chiesa del "Fungo" (così veniva chiamato il parchetto di zona). O a nascondino. O a qualsiasi cosa dove ci si potesse divertire e muovere senza per forza dover vincere, o dove comunque la vittoria non era lo scopo.

Lei no. Riusciva a essere competitiva anche a nascondino.
Barava a visual game.
Si arrabbiava quando perdeva, stravolgendo le regole a suo favore.

Oggi eravamo lì e anche se sappiamo tutti che non è il lavoro della vita, è stato carino affrontare questa giornata devastante insieme. Mangiando come dei maiali, scherzando come se non ci fosse un domani, e lavorando per una vittoria comune.

Questo, per me, è un bel lavoro di squadra.

Canzone del giorno: Sick Tamburo Il fiore per te

28 novembre 2018

5 tons

Ho il cuore pesante. Così pesante che se nel letto dal quale faccio fatica ad alzarmi, riesco perlomeno a rotolare, come una larva, sul fianco sinistro, mi pesa sulle costole della gabbia toracica. E se mi giro sul fianco destro, idem, E se la forza mi assiste e riesco ad alzarmi, il diaframma è spinto verso il basso, come nella tensione di un grido che fa fatica a uscire.
Allora penso a una unica soluzione: se avessi una macchina guiderei fino a dove mi porta la benzina. Poi una volta ferma la parcheggerei e andrei avanti fino a dove mi portano le gambe. Poi, che ci sia luce o buio, mi fermerei a contemplare cosa ho attorno. Probabilmente niente, come adesso. Ma un niente più vasto.
Allora urlerei con tutta la forza che ho in corpo, che è così che si libera un cuore pesante. E piangerei fino a esaurire le lacrime.

Non ho mai compreso perché le persone decidessero, a un certo punto, di togliersi la vita. Ora un po' lo capisco. Perché senza avere la possibilità di rialzarsi, con un minimo di serenità e stabilità (pur immaginandola e contemplandola da lontano, come uno spettatore che vede la propria vita da dietro le quinte), ma ricevendo colpi forti, diretti e interminabili alla fine si esauriscono le forze. Che di me si può dire tutto ma non che non abbia lottato, pur uscendone perdente, a pezzi, insanguinata ed esanime. Di me si può dire ogni cosa ma non che non sappia lottare per le cose che ritengo importanti, e che sia pronta anche a subire l'ennesima umiliazione. E che quando smetto di lottare è solo perché sono troppo ferita e devo scegliere di sopravvivere.
Ma, alla fine, forse è quello. Lottare da soli ha poco senso.
Non mi toglierò mai la vita, non preoccupatevi. Dico solo che comprendo. Che capisco quale sia il peso che porti a un gesto così estremo.

Non sono sparita, sto scrivendo un racconto lungo. Che non so se terminerò perché sono abituata a scrivere in massimo un'oretta i miei post e invece sono giorni che ci sto sopra.

Io, a differenza di ciò che qualcuno dice, non so scrivere bene. Quando mi rileggo a volte mi infastidisco: ma ho una capacità, immagino e visualizzo tanto. E quindi io scrivo solo ciò che vedo, per quello mi riesce facile parlare della mia vita. Perché è qui, e ora.

Ma ogni tanto la visualizzazione di contesti non reali prende il sopravvento e allora se c'è un amico che ti stimola a buttarla giù sotto forma di un racconto non puoi non cedere alla tentazione della sfida. E quando verbalizzi le tue visioni ti rendi conto che forse si può fare, anche se la strada alla fine è ancora lunga, un po' in salita (ma non troppo) e non sai dove ti porterà.

Io penso che questo anno mi abbia portato troppa sofferenza e troppo a lungo. E sono stanca anche fisicamente.
Spero che questo anno di sofferenza finisca presto, perché la resilienza per cui ero famosa mi sta abbandonando. Non riesco più a rimettermi in piedi bene senza uscirne ammaccata.

Ammaccata come quelle mele magari buone eh? Ma che sono state troppo sballottate ed esteticamente per niente appetibili.

Che sia, lo spero, davvero l'ultimo post triste. Che anche a rileggerli mi viene la nausea.

17 novembre 2018

Ready

Mi scrive una email I.
Io e I. non ci siamo conosciuti per caso. L'ho contattato diversi anni fa, dopo aver letto un suo articolo per il giornalino dell'UGI. Parlava del suo tumore adolescenziale, un aggressivo Osteosarcoma. Lo scrivo con l'iniziale in maiuscolo perché il suo nome possa essere letto con la reverenza che la malattia merita. Un ospite cattivo, aggressivo, inatteso.
Lo contattai, dicevo, perché noi ex tumorati di dio abbiamo un filone comune nelle nostre storie, per quanto arriviamo da ambienti diversi, educati in modi diversi, abbiamo tutti la stessa modalità di cercare il nostro posto nel mondo. Alla fine io e I. non ci siamo visti molto spesso, posso dire che forse ci siamo visti 2 o 3 volte nell'arco di questi 10 anni e più.
Vivevo a Bologna quando mi mandò la prima bozza del libro che stava scrivendo sulla sua storia. Decisi di leggerlo in modo matematico, 20 pagine al giorno almeno, per poterlo terminare in circa una ventina di giorni, si trattava infatti di una prima versione di ben 400 pagine e, mi diceva, era solo la prima parte.
Nel corso di questi anni mi ha inviato altre versioni che io non ho mai letto. Ho avuto questo periodo di rifiuto relativamente lungo in cui ho allontanato ogni connessione con qualcosa di inerente alla mia malattia.
Oggi mi arriva una sua email, con una sua più recente versione. Ecco, mi sento pronta a leggerlo.

Quando lo lessi la prima volta mi chiesi se ci fosse stato bisogno di un ALTRO libro sul cancro. Ora poi, che Nadia Toffa (purtroppo per lei e chi le sta accanto) si è ammalata, qualsiasi altro ingresso sul mercato letterario sembra superfluo.
Un personaggio famoso e malato di cancro.
Però io penso che la vicenda di I. sia diversa. Un po' perché, a differenza mia e della qui sopra specificata presentatrice, c'è un totale rifiuto della malattia. Mentre io sfoggiavo la mia pelata con orgoglio a dimostrare la battaglia interiore e anche esteriore, ben visibile, che stavo affrontando, I. ha nascosto tutto, con l'accuratezza di un prestigiatore che mostra solo ciò che vuole mostrare. La parrucca, emblema di questo sodalizio con i suoi segreti, ne è testimone. Accuratamente acconciata e sistemata per non essere spostata in nessun modo, nemmeno se qualcuno avesse dovuto scompigliargli i capelli, in un gesto di affettuosa amicizia o altro.

Sono stata fortunata. Io ho compreso subito di essere una guerriera, I. ha purtroppo scoperto questa cosa molto dopo. Lo si legge tra le righe, dell'orgoglio attuale per quel ragazzino che sente così lontano, così diverso da lui ma allo stesso tempo ne è stato parte.
Voglio molto bene a I, anche se non ci vediamo quasi mai.

Con tutto questo volevo solo chiedergli sinceramente scusa per non esserci stata, ma... No, nessun ma, nessuna giustificazione. Ora sono pronta.

Ora posso leggerti.