30 giugno 2018

Geotrupes mutator







Eh, sentire la tua voce grottevole mi dispiace molto. Capisco, capisco il momento e la volontà di chiudere tutto fuori o chiuderti dentro te. C'è sempre questo paradosso che mi fa un po' ridere: le persone come me e come te che sono viste tipo come eroi che sconfiggono malattie innominabili rimangono sotto per questioni sentimentali e si sentono disarmate rispetto a tutto quanto per una batosta sentimentale che forse dimostra che, mha, magari non dimostra un cazzo ma forse è indicativo di come siamo.

Se puoi mandami una volta ogni tanto una riga per dirmi che ci sei ancora. 
Una riga dalla grotta 









Vorrei tatuarmi un insetto. Ma dimentico sempre che addosso ho la bellissima Acherontia atropos.
Sono diversi giorni che evito il mondo. Conto malamente i giorni con delle tacche sul muro. Ma non ricordo mai se ho già disegnato la tacca, quindi nemmeno quello è affidabile.

Affronto le serate sociali con nonchalance, come se stessi bene. Esaurisco quindi le mie energie. Tra un sorriso forzato, una battuta forzata. E a casa svengo sul letto, come se avessi corso un'ora. Vorrei non vedere nessuno, ma non so più come defilarmi. Il lavoro è diventato un evento altrettanto faticoso. I miei colleghi vogliono interagire con me.

Sono sotto medicazione avanzata. Un'infermiera sconosciuta mi ha procurato questa medicazione portentosa, pare. La più antibatterica di tutte, all'argento.
Dura una settimana, poi dovrei già vedere dei miglioramenti.
In un ospedale di Milano circolano le foto della mia ferita, la mia amica RagnoB le ha mostrate a chiunque per capire cosa si possa fare. Un chirurgo di Vicenza è disponibile a vedermi gratuitamente, per dire.
La sentenza è unica, si sospetta Pseudomonas, un batterio bastardo resistente agli antibiotici. Dopo 4 mesi è abbastanza comune avere un'infezione.

Devo trovare un piano, disinfettarlo bene, lavarmi le mani per almeno tre minuti, asciugarle con asciugamano pulito. Disinfettare le forbici con una soluzione alla clorexidina, la stessa soluzione la uso sulle mani che non si sa mai. Con la fisiologica pulisco la pelle attorno alla ferita, è sporca di essudato giallastro.
Sì, fa schifo anche a me.
Mi pulisco di nuovo le mani con la soluzione alla clorexidina.
Apro la confezione della supermedicazione. Chissà che credevo, pare una retina elastica ma scura. Devo ritagliarne un pezzetto delle stesse identiche dimensioni della ferita. Poggiarla sopra. Poi apro la confezione della copertura. È una sorta di spugnetta che va posizionata sopra e assorbe l'essudato oppure crea umidità. Si autoregola a seconda di cosa ha bisogno la ferita.
Taglio la copertura in quattro. Prendo un quarto e tolgo la plastica che copre l'adesivo. Posiziono il quarto sopra l'argento. E copro tutto con cerotto Fixomull (del modico costo di 29 euro).
Per una settimana lascio così, a fare il suo lavoro. Promettono miglioramenti già dopo la prima medicazione, ma boh. Attendo.

Nel frattempo dovrei evitare di bere alcol, ma una birretta ci sta.
Prendo i beveroni proteici perché le proteine dovrebbero aiutare e ho ricominciato a mangiare carne. Fino a oggi solo fuori casa ma stasera ho addentato una polpetta. Cioè tre.

Ho fatto un video da mostrare a RagnoB per capire se medicavo bene. Rivedere il mio piccolo seno dimezzato nel video mi ha fatto un po' male.

Ma non è quello il motivo della mia grotta.

RagnoB dice che potrei chiedere anche un paio di settimane di mutua per stare a casa, ferma e immobile. Aiuterebbe tanto.
Ci sto pensando, potrei stare nella grotta e non dovrei andare al lavoro, ma dovrei giustificarlo a casa (ricordate che Madre non sa nulla).

In effetti ho cominciato a lavorare subito dopo l'intervento, proprio nell'unico periodo dove un po' di riposo mi avrebbe fatto bene.








Senza volerlo mi sono tramutata in farfalla. Ma ho perso le scaglie dalle mie ali e non posso volare.
Vorrei essere un Geotrupidae. Almeno loro mangiano merda. Sarei già un bel po' avanti.


Dai, smetto di bere lunedì. I lunedì sono fatti apposta: per dimostrare i fallimenti dei buoni propositi della settimana precedente.
Per ora mi stappo una birra ghiacciata.

Ti ho sognato. Mi urlavi addosso una cattiveria. Eri aggressivo. Il giorno dopo mi mandasti una lettera di scuse.

28 giugno 2018

Il mio fiore prezioso

Respiro la nebbia, penso a te

Non tutte le piante hanno bisogno delle stesse attenzioni. Ci sono piantacce che vivono bene se abbandonate al loro destino, troppe cure non fanno bene.  Ci sono piante che non vogliono concimi, e piante che ne avrebbero bisogno.
Finisce che aspetti la fioritura della pianta che coltivi da anni. La curi ogni giorno, cerchi di non spostarla, di non dedicarti troppo né troppo poco, non vuoi soffocarla perché se fosse per te staresti tutto il giorno a misurare i parametri vitali. Il pH è corretto? Il terriccio abbastanza umido?
Come quando all'università perdevi l'autobus perché incantata dalle piante carnivore sul davanzale della finestra.
La pianta sopravvive, non troppo bene. Ma non fiorisce.
Ti preoccupi, forse ha poca luce. Così la sposti e modifichi alcuni parametri. Meno acqua, forse? Più concime? Google non può aiutarti al riguardo.
E infine muore.
Forse botrite, forse marcescenza delle radici, forse afidi o ragnetto rosso. Ma l'hai persa.
Non riesci a fartene una ragione.

Non riesco a farmene una ragione.


27 giugno 2018

"Cosa fai? Stai dormendo? Sei a 1700, lo sai che devi arrivare almeno a 4000"
Annuisco imbarazzata.
"Vieni ti affianco a lui" e mi indica una persona a cui stanno togliendo monitor e computer per sostituirli con una tastiera gigante, larga almeno un metro e profonda 50 cm. Beige e rossa, di un materiale morbido tanto che quando la appoggiano sulla scrivania sembra quasi un grosso pezzo di pan di spagna che, tenuto ai lati, si affonda al centro. I tasti sono grossi e non appena la collegano alla corrente mi rendo conto che funge anche da computer. "Come un vecchio Commodore" esclamo.
Mi guardo intorno, non è l'ufficio luminoso dove ho lavorato fino a ieri. Non sembra nemmeno un garage o un seminterrato, quanto proprio una rimessa per auto. Le pareti sono dipinte di blu scuro, i neon illuminano piccole zone e lasciano il resto al buio.
Mi rimetto al lavoro ma so che devono arrivare gli amici di A. da Ginevra. Mi destreggio male tra lavoro e impegni. Arriva L. con una persona imprecisata e mi dice di seguirli. Attraversiamo un portellone rosso aperto e ride. "Dai non ho tempo da perdere, qui rischio il lavoro!" e ridendo se ne va.

Mi sveglio di scatto, è tardi, devo avere spento la sveglia nel sonno.

26 giugno 2018

Pica pica

Sono alla fermata del bus e nessuno, nessuno si accorge di quello che accade. Una coppia di gazze sta scacciando una cornacchia.
Penso che in vicinanza ci sia il loro nido.
La lotta è furiosa ma le gazze si aiutano; quando una delle due è esausta si allontana, per poi tornare a dare man forte al compagno.
La cornacchia le attacca ma loro resistono, si battono anche in volo. Dopo alcuni estenuanti minuti la cornacchia se la batte in ritirata, seguita per un piccolo tratto dalle due gazze.
È estremamente dolce vederle combattere per una cosa così importante.

25 giugno 2018

Mimas tiliae

Saresti una mamma perfetta, perché puzzi di merda di vita.
"Quella è la costellazione del cane lercio. L'hanno chiamata così perché sembra un cane e quelle stelle ai margini sembrano gli aloni di puzza che lascia. Ah e quella è la costellazione dei punti neri. Perché se la vedi in negativo sembrano dei punti neri su un grosso naso. E quella lì, quella è la mia preferita, è la costellazione della Mimas tiliae. È una falena bellissima. La falena del tiglio."

"Mamma, sono stanca, andiamo a casa."

"Lo so che ti spaventano le falene e non ne vuoi sentire parlare."

Sbuffa e si dirige verso la macchina. Mi alzo e mi sistemo il tailleur spiegazzato e i capelli, raccolti in uno chignon.
Lei si chiama Lupa.
Lo so, è un nome particolare, ma meglio di quanto si sente in giro, dai tifosi del calcio che rendono i propri figli meteore sportive alle persone che si ostinano a dare nomi stranieri, di altre culture.
Il suo nome ha una storia, come tutto il resto. Voglio che con quel nome si ricordi di essere una donna coraggiosa e che non si faccia calpestare. E che trovi il suo branco, quello giusto, da sorreggere e che la sorregga, voglio che non sia come me, che non si faccia piegare dal sistema.

Ho deciso di diventare mamma molto giovane perché volevo creare un legame unico con mia figlia. E così a 18 anni, con una provetta e un donatore, lo diventai.

Fu straziante e dolcissimo. Il parto è un fatto di amore e sangue che nessun uomo potrà mai comprendere. È questo che abbiamo noi: il dono di portare avanti la vita. Ed è l'unica cosa importante.
La camicetta bianca si è sporcata di erba. È un vero peccato che mia figlia detesti gli insetti, e l'arte, e la fotografia. Lo so che lo fa per darmi addosso, è adolescente, un vero vulcano. Si è già fatta il primo tatuaggio: io ero contraria, ma non mi ha chiesto il permesso. Si è tinta i capelli di turchese. Se lo avessi saputo glielo avrei vietato.
L'ho iscritta a tanti sport. L'equitazione, la pallanuoto, il golf: qualsiasi cosa che le impegni il tempo e mi permetta di andare avanti con la mia carriera.

Non ho tempo libero perché di passioni ne avrei molte, avrei voluto diventare una zoologa, una volta. Ero piccola e giocavo con le formiche. Poi ho provato con la fotografia, ma ho capito presto che niente poteva rendermi quanto il mio posto attuale.

Il mio lavoro è marginale ma molto importante, mi occupo di catalogare le masse che possono essere identificate come pianeti. Ci sono parametri specifici. Se sembra complesso vi assicuro che non lo è affatto: un telescopio raccoglie dei dati, li passa a un computer che registra qualsiasi variazione in termini di onde radio. Io controllo che nulla si inceppi.

A mia figlia dico che passo le giornate guardando il cielo, e che non smetto mai di sognare. Lei sbuffa. Vorrebbe fare qualcosa di concreto, lavorare il legno, scolpire (nulla che sia artistico, potrebbe venirle un eritema), le andrebbe bene anche guidare un camion. Tutto ciò che possa essere l'opposto di ciò che sono io.
Mi avevano avvertita: l'adolescenza è un periodo buio. Tutto l'amore che puoi dare viene respinto, il tuo cuore calpestato nel peggiore dei modi e il tutto con un'indifferenza spietata, calcolata.

Ricordo l'odore del parto. Vi racconteranno di momenti dolcissimi, io ricordo il ventre spezzato, il dolore atroce, la quantità di persone lì davanti. Nessuno a tenermi la mano. E tutto questo per arrivare, 19 anni dopo, con il cuore spezzato.
Dal ventre al cuore. Non c'è male come passaggio.

Non sono riuscita a terminare il periodo di maternità perché rischiavo di perdere il lavoro.
A dire la verità non lo so. Ma non potevo rischiare.

Solo dopo un mese ero già col mio tailleur, i miei tacchi, la camicetta e la giacca. Ho tantissimi completi così, anzi direi solo quelli. Tessuti diversi e colori diversi.
Questo volevo diventare, questo sono diventata.

Non ho avuto bisogno di nessuno al mio fianco per realizzarmi, per essere quello che sono.
E a parte Lupa, non sento il bisogno di avere nessuno accanto.
Le mie giornate scorrono identiche le une alle altre.
Fino a che il computer non ha registrato una variazione molto intensa, così intensa da risultare vicinissima.
Vicina non in termini di anni luce, ma in termini di metri.

Una piccola deviazione del selettore ha portato a una scoperta sensazionale, ad appena pochi metri da noi, nel seminterrato.
In verità sarebbe stata un'anomalia che avrei dovuto evitare, ma l'entusiasmo era così grande che non sono stata licenziata. Lupa avrebbe sicuramente sbuffato.
Nel seminterrato c'è un buco, quello che i profani definirebbero un passaggio per un' "altra dimensione". Per noi è una piccola anomalia dello spazio tempo. Abbiamo avuto altri falsi allarmi ma poi si era trattato di forti campi elettromagnetici che andavano a interferire col selettore. Stupide macchine.

Questa volta però avevamo altri dati, le macchine erano impazzite, e i grandi cervelloni non si davano pace. C'eravamo: una scoperta più grande di un piccolo ammasso di materia senza vita che gira in tondo (ehm, in orbita ellittica) nel cielo (uh sì nello spazio, ok ok).

Paradossalmente il passaggio coincide con una vecchia porta inutilizzata. Come nei peggiori film di fantascienza: puoi aprire la porta e ti trovi direttamente dall'altra parte, con buona pace di scenografi che non devono inventarsi niente che non sia già stato visto. Una porta che permette un passaggio da un ambiente all'altro. Che fantasia.

Gli scienziati decidono di mandare dall'altra parte la persona più sacrificabile, ovvero io.
La cosa mi onora e mi offende. In fondo sono sempre stata fedele a questa azienda. Ci lavoro da prima del diploma (preso a pieni voti nel migliore liceo della città), ma il fatto di poter varcare la soglia per prima mi fa sentire importante. Non c'è null'altro, al momento, che voglio fare.

Vorrei dirlo a Lupa, ma sbufferebbe. Probabilmente si rimetterebbe le cuffie con la sua musica Heavy Metal. "Che noiosa che sei, Mà".

Mi danno una tuta ignifuga, una videocamera, una ricetrasmittente, un casco con l'ossigeno e un sacco di strumentazione. Anche qui, banali. Immaginate se dietro quella porta ci fosse un apparecchio strano che improvvisamente si è acceso da solo? Ti saluto promozione.

La porta è una porta, la maniglia gira come una maniglia, sembra tutto a posto anche se il rumore del mio respiro all'interno del casco è fastidioso. Forse perché sta accelerando.

Apro la porta.

Buio.

Chiudo la porta.

Il rumore del mio respiro.
Il rumore del mio cuore.

"Mi sentite?"
Niente.
Torno indietro, apro la porta, il cuore in gola. Buio.

Non c'è il laboratorio, né i grandi cervelloni. Solo una stanza, credo, buia. O forse proprio il buio.

Forse quel buio che ti porti dentro, che visualizzi all'esterno. Di cosa si può avere più paura se non di quel buio?

I rilevatori indicano che l'aria è respirabile, la pressione identica alla nostra.
Secondo me è uno scherzo. Sono in un'altra stanza e di là hanno spento le luci. Tolto tutto.
Quando tornerò spaventata accenderanno le luci gridando SORPRESA.

E io riderò nervosa.

Ah già, ho una piccola torcia. Voglio dire: una strumentazione da milioni e non una torcia?
Sarebbe stato da film dell'orrore di serie B.

Penso a Lupa, voglio che sia orgogliosa di me, che capisca l'importanza di essere una donna determinata, lei tanto non saprà mai che hanno mandato me perché sono sacrificabile. A lei dirò che doveva andarci qualcuno di importante, qualcuno che non rinuncia ai sogni, qualcuno che sa gestire una mole enorme di dati, che può raccoglierli, "che quei cervelloni in più di me hanno solo la laurea".

Mi tolgo il casco, accendo la torcia. Sembra una cantina. C'è un corridoio lungo, odore di muffa. Mi tolgo la tuta. Appoggio tutto per terra. Devo essere uscita (entrata?) da una di queste porte.
Non so cosa fare.
Resto in attesa ma gli eventi scelgono per me. Rumore di passi (spengo la torcia) una luce si accende e la vedo.
Mi vedo.
Sono io.
Mi guarda.
La guardo.

A doverle dare una definizione a posteriori, direi che è la gemella ribelle di me. Sembra Lupa. Ha dei tatuaggi, un teschio su una spalla, un garofano (forse un papavero) sull'avambraccio. Altri disegni incomprensibili. I capelli colorati.
Le cadono le chiavi dalle mani.

Restiamo un momento così immobili. Forse è più di un momento, sono quegli istanti in cui non comprendi bene cosa fare, in cui ogni secondo sembra incredibilmente infinito.

Indossa dei miserabili jeans.
Se potessi li abolirei.
Mi guarda.
La guardo.

"Lupa? Dove è Lupa?" le dico.
Forse qui c'è una Lupa disciplinata e dolce, non sarà mai mia figlia ma voglio conoscerla?
"Cosa? Chi? Chi sei?"

Sembra confusa, ma anche triste per me. Ha uno sguardo profondo, dolce e malinconico. Raccoglie le chiavi.
Si avvicina.
Mi allontano.

"Tu sei..."
"No, ci somigliamo soltanto"
"Da dove arrivi? Che ci fai qui? Come sei vestita?"

Guardo il mio abito elegante a pantaloni usato per l'occasione. Il tailleur a gonna non stava sotto la tuta.

Non so cosa rispondere.
Cosa fareste se trovaste di fronte a voi la vostra esatta copia ma completamente diversa?
Riuscite a capire il paradosso?

Si avvicina, non mi muovo.
Si avvicina ancora. Resto immobile.
Mi abbraccia.
Piango.

"Vieni con me"
Mentre il timer decide che è passato abbastanza tempo per restare alla luce del neon, mi tiene per mano. La stessa mano fredda. È visibilmente agitata, lo sento dai nostri respiri.
"Chi è Lupa?"
"È mia figlia"
"Hai una figlia?" lo esclama con stupore mentre mi trascina verso la luce.
Il sole è forte, siamo circondati da piante di lavanda, c'è una pozza d'acqua a valle, che posso vedere distintamente.
"È il lago, io vivo qui"
"Sembra tranquillo"
Le racconto brevemente del mio scopo, della porta, di mia figlia. Non riesco a non entrare nei dettagli, è come parlarsi dentro, è come se l'altra mia metà oscura mi stesse ascoltando davvero.
Mi racconta di lei, dei suoi problemi di salute, del suo rapporto che sta andando in pezzi, delle sue passioni (incredibilmente vicine alle mie). Stacca una infiorescenza di lavanda.
"Tieni"
La annuso. Lupa non mi crederà mai.
Sembra più giovane di me, ora che la guardo bene. Ma i suoi occhi sono più stanchi dei miei.
"Scusami, devo prelevare dei dati e fare delle foto prima di andare via"
Ma andare dove? Quella porta sembrava non andare più da nessuna parte.

"Certo, fa' pure. La tua storia ha dell'incredibile. Probabilmente tra poco mi sveglierò con Maya tra le braccia. Sai, la sua lingua ruvida è fastidiosa, ma non potrei stare senza lei addosso ogni notte. Oh, Maya è una delle mie due gatte"

Annuisco.

La guardo.
Ma davvero ho quegli occhi?
Dopo le prime somiglianze, ora noto solo le differenze. Sembra spaesata, sembra non sapere quale sia il suo posto nel mondo.
"Davvero non hai figli?
Sgrana quegli occhi così grandi che non sembrano davvero i miei "Ma che, scherzi?"

Lupa ne sarebbe colpita. Un modello.
Probabilmente niente carriera, colorata e vivace, dall'animo un po' triste e apparentemente, ma solo apparentemente, selvatico.

"Possiamo farci una foto insieme?"
"Certo"
Sistema i suoi capelli colorati.
Estraggo la mia mirrorless dallo zainetto lasciato come equipaggiamento. Sorride ma non saprò mai perché.
Veniamo distratte in fretta da qualcosa vista con la coda dell'occhio. Un movimento irregolare nell'aria e l'immobilità su un tronco. La bellezza e la perfezione di un essere incredibile.
Una falena. Quella falena.

"Mimas tiliae" esclamiamo in coro.

22 giugno 2018

La (triste) fine di una Drosophila

Ti mando una canzone, ascoltala quando puoi. Un po' triste ma molto bella. Un po' come te oggi.

Non ho avuto cure parentali. Nel mio DNA è scritto cosa devo fare. Mangiare, defecare, riprodurmi e poi morire.
Non conoscevo la parola Morte finché un'altra Drosophila con me in questa colonia non me ne ha parlato. Dice che i Grandi Bipedi ne hanno un sacco paura. Prima di essere catturata e introdotta in questa colonia si era intrufolata in uno strano alveare, pieno di Bipedi Giganteschi che lui ha soprannominato Grandi Bipedi. Uno di loro muoveva le ali in modo confuso e aveva una frequenza tonale alta. La Drosophila vibra le ali cercando di farmi capire ma dice che non è la stessa cosa.
Parlava della Morte, e versava del liquido dall'apparato oculare. Che spreco di risorse! I liquidi sono importanti, io lo so, che cerco sempre di averne un po' dalla frutta in decomposizione.

La Drosophila dice anche che un altro Grande Bipede aveva detto a un altro che noi siamo importanti. Perché pare che il nostro DNA lo abbiano studiato per filo e per segno. Ecco perché conosco la parola DNA.
Non so cosa sia esattamente il DNA e perché interessi così tanto ai Grandi Bipedi che con un movimento di ali possono provocare la fine del nostro ciclo vitale.

Io spero almeno di arrivare alla riproduzione.


Non ricordo esattamente quando sono uscita dall'uovo. Ero una piccola larva e di sicuro mi sono sgranchita le estremità. Poi ho cercato cibo.
Forse è scritto anche questo del DNA. Praticamente ho scoperto che tutto quello che facciamo è scritto nel nostro DNA.

Molte delle altre larve sono annegate nel cibo. Sciocche, bisogna stare bene aderenti alle pareti del barattolo e cercare di non scivolare, ma non è facile.

Piano piano è poi arrivato il momento di impuparsi.
Ho trovato un posto adatto e solitario, anche se probabilmente poi è stato colonizzato da altre larve, e mi sono fermata.

Ed eccomi qui.

Il mio ciclo vitale sarà breve, ancora poco e dovrò cercare di fare delle uova. Anche se qui lo spazio è piccolo e non riesco a sgranchirmi le ali. Ogni tanto la superficie superiore di questo spazio si apre ed entra la luce. I miei fratelli si lanciano all'esterno e io posso vederli attraverso la trasparenza delle pareti della colonia in cui vivo che saltellano su una superficie piatta e grigia, sono liberi. Ma non riescono bene a volare, forse perché qui dentro c'è poco spazio e nemmeno loro riescono a sgranchirsi le ali.

In fondo non si sta male, c'è cibo, ci sono tanti compagni e la riproduzione sarà facile.

Ma raccontano che alcuni di quelli che escono sono in realtà liberati da un Grande Bipede come pasto per un un ottapode, che i Grandi Bipedi definiscono Ragni.

Perché un Grande Bipede dovrebbe impedirci di riprodurci, e concludere serenamente il nostro ciclo vitale?
Non so cosa significhi serenamente, ma la Drosophila che conosce tanto bene i Grandi Bipedi la usa spesso. Quindi ho deciso che la userò anche io.

L'ottapode è in un'altra struttura trasparente, più piccola della nostra colonia. C'è solo lui e una serie di fratelli morti. Non appena qualcuno dei nostri fratelli scivola lì dentro, l'ottapode gli salta addosso, mentre gli altri guardano la scena terrorizzati. Non possono scappare.

Non so cosa significhi la parola terrorizzati, ma ho sentito il Grande Bipede che lo diceva.  Quindi ho deciso che lo dirò anche io.

Dunque è questa la Morte?
Forse la Morte è solo quando un Grande Bipede non conclude il ciclo vitale e viene mangiato da un enorme ottapode. Non so.

Ho scoperto delle cose sui Grandi Bipedi. Per esempio fanno sempre le stesse cose alle stesse lunghezze d'onda dello spettro fotometrico.

Una volta il Grande Bipede ha detto "È tardi" mentre si agitava freneticamente cercando di aprire la parete superiore e l'ottapode si lustrava le otto strutture oculari con i pedipalpi.

Io non attenderò la Morte tra i pedipalpi dell'ottapode.

Voglio studiare i Grandi Bipedi. Così forse potrò completare il ciclo vitale, aiutare i miei fratelli a scappare.

Attendo la radiazione solare giusta e l'apertura superiore del contenitore che avviene, come previsto, sempre nello stesso momento.

Salto in una struttura cespugliosa che copre il capo del Grande Bipede. Ha una lunghezza d'onda di 490 nm circa ed è strano perché l'altro Grande Bipede che vive nel Grande Alveare (hanno questo Alveare gigantesco con delle celle più o meno regolari e nessuno spazio per le uova, né per le larve o per le pupe! Incredibile! Dove le metteranno le uova?) ha una struttura cespugliosa di tutt'altra lunghezza d'onda. Magari esistono più specie di Grandi Bipedi e io sto sottovalutando la cosa.

Resto lì nascosta e aspetto.

Esce dal Grande Alveare e lo chiude con una struttura piena e pesante, sembra. Come farà poi a disintegrarla? La costruisce e la disintegra ogni volta per entrare o uscire? Forse è come il coperchio del posto in cui stavo con la mia colonia, si può spostare e rimettere. Ingegnosi questo Grandi Bipedi. Così i grossi predatori non ammazzano le loro larve.
Poi una cosa buffa. Scivolano sulle zampe inferiori senza usare le ali. Perché non volano? Sono forse troppo grandi e pesanti? O forse ingombrerebbero tutto il cielo dato che sono tanti?

Comunque dopo un po' di questo scivolamento il mio Bipede è entrato in una cella mobile. Non era un alveare ma solo una cella e anche questa cella scivolava via. C'erano tanti altri Grandi Bipedi e quasi tutti maneggiavano queste cose che parevano delle tavolette di cioccolata ma senza mangiarle e queste non si scioglievano. Alcune di queste tavolette avevano un filo collegato, che poi si divideva in due e le estremità erano infilate in due buchi posti ai lati del capo dei Bipedi. Decisamente buffi.

Non ronzavano, né vibravano le ali. Nessuna frequenza sonora, solo quella della cella in movimento. Nessuno pensa ad accoppiarsi o a riprodursi. O a procurarsi cibo. Cosa mangeranno i Grandi Bipedi?

Il mio Grande Bipede si era posizionato ripiegando le zampe inferiori su una struttura apposita e guardava attraverso una superficie trasparente.

È rimasto così immobile per un po', finché non ha esteso di nuovo le zampe posteriori, è scivolato all'interno della cella, è uscito da una fessura abbastanza grande (e di nuovo richiudibile! Avrei tanto da imparare da loro) e ha continuato a scivolare.
Che vita poco interessante. È passato tantissimo tempo e finora non ha fatto altro che scivolare. Non si è preso cura di nulla, non ha cercato cibo, non ha vibrato le ali, non si è pulito le zampe.

Forse hanno un ciclo vitale molto più lungo del nostro e possono permettersi di impiegarne gran parte a fare queste cose prive di senso. Forse è scritto nel loro DNA (nota: se fosse un DNA diverso dal mio? Avrebbe tutto senso).

A un certo punto ha preso la tavoletta di cioccolato e l'ha portata davanti al capo. E dentro la tavoletta si vedeva quello che c'era lì di fronte al suo apparato oculare. Incredibile. Perché vedere dentro una tavoletta quello che l'apparato oculare (nota: non hanno occhi composti) può osservare benissimo da solo? Forse non vedono bene e sono apparecchi che permettono loro di osservare l'ambiente circostante.

Potrebbero essere dei rilevatori di predatori.

Così, scivolando con la tavoletta in mano, ha cominciato a procedere in senso obliquo verso l'alto. Questa struttura obliqua e con pedane di altezze regolari, con una frequenza di circa 650 nm, era piuttosto lunga e sconnessa. A un certo punto ha esclamato "Uff, una ragnatela" e io ho pensato alla parola Ragno. E speravo non ci fossero ottapodi in vista.

Sono rimasta all'erta per un po', poi forse è stato un falso allarme (nota: gli ottapodi giganti potrebbero essere predatori dei Grandi Bipedi? Se così fosse potrebbe avere un senso che lo abbia dentro il suo Alveare. Forse lo sta studiando per difendersi).

Dopo tutto questo ondeggiare siamo arrivati su una struttura alta. Drosophile come me non arrivano a questa altezza, non ha senso. Non c'è cibo. Né altre Drosophile (perché non c'è cibo), quindi non ci si può accoppiare. Ho avuto per un attimo paura di completare il ciclo vitale senza accoppiarmi.

Non so cosa significhi la parola paura, ma ha un bel suono, quindi penso che la userò.

Dopo aver spaziato con la tavoletta in tutte le direzioni per assicurarsi che non ci fossero predatori ha ripreso la struttura obliqua scendendo verso il basso. Non ha più la tavoletta in mano, come a fa a vedere così?

Morirò senza riprodurmi?

Comincio ad annoiarmi. Non c'è niente di interessante nel ciclo vitale di questi bipedi. Ci credo che hanno studiato il nostro DNA, io non studierei mai il loro DNA. Vorrei tornare alla colonia ma devo attendere che il Grande Bipede torni all'alveare.

Peccato che si reca in un altro alveare. Enorme e grigio.

Prima entra in una cella strettissima con delle porte richiudibili (frequenza circa 700 nm) con altri Grandi Bipedi che producono onde sonore altissime. Mi vibrano le ali!

Poi esce da questa cella e ci troviamo in un posto diverso da dove siamo entrati. Questo sistema di scivolamento è eccezionale! Sarà scritto nel loro DNA?

Entra poi in una cella ENORME. La temperatura è più bassa dell'esterno, spero di non rallentare il mio ciclo vitale. O forse è meglio, così ho più tempo poi e sono certa di potermi riprodurre. Scivola scivola e sento una gran quantità di onde sonore.
Per lo più "Buongiorno", o "Ciao".
Qualcuno parla al mio Grande Bipede dicendo "Oh Carla".
Sarà il nome della sua specie?

Oh Carla si posiziona come sulla cella che si muoveva, piegando le zampe inferiori, maneggia con una scatola scura e si accende una luce su una piattaforma rettangolare. Lunghezza d'onda circa come la massa cespugliosa di Oh Carla. Che immensa noia.
Ancora nessuna preparazione alla riproduzione.

Non so cosa significhi la parola noia, ma ogni tanto la Drosophila che conosce bene i Grandi Bipedi la usava. Mi piace molto, da quando l'ho sentita la uso spesso anche io.

La temperatura bassa mi impedisce di muovermi. Come fanno a vivere con questi delta termici? Forse hanno un ciclo vitale così lungo perché si ibernano di proposito in modo da avere più tempo per la riproduzione.

Noto che molti Grandi Bipedi hanno le zampe inferiori ricoperte da qualcosa mentre altri hanno un tessuto rosa che dovrebbe chiamarsi pelle.

Penso che le femmine di queste specie (sono così diversi per forma e dimensioni che credo non siano tutti della stessa specie) abbiano le zampe inferiori scoperte e i maschi invece no.

Oh Carla è sicuramente un maschio.

"Buon lavoro".

Cosa sarà mai il lavoro? Sta di fatto che ho passato il periodo più noiosamente lungo del mio ciclo vitale su quell'ammasso cespuglioso.
"Ma cosa hai fatto ai capelli?" dice un Grande Bipede maschio, e con l'ala strofina il masso cespuglioso e per poco non cado.

Forse il masso cespuglioso si chiama Capelli. Prendere nota.

Ogni Grande Bipede ha dei Capelli diversi. Qualcuno pare non averne, mettendo in mostra la pelle del capo.
Queste differenze serviranno sicuramente alla riproduzione. La femmina sceglierà il maschio con i capelli più belli anche se sembrano le femmine ad avere capelli più belli. Tranne Oh Carla, lei ha dei capelli bellissimi. Avrà tanto successo con le femmine della sua specie.

Forse usano la parola lavoro per indicare la riproduzione. Non vedo deposizioni di uova né celle atte al mantenimento delle stesse. Non capisco la finalità del loro ciclo vitale.

Dopo tanto, tantissimo tempo, Oh Carla decide di scivolare via. Ma in realtà tutti i Grandi Bipedi scivolano via. Forse vanno finalmente a caccia di cibo.

Saranno frugiferi? Se apprezzano la frutta marcia posso mangiargliene un pochettino, ho un po' fame.

Scivolando a una temperatura più calda, facendo lo stesso percorso a ritroso di qualche tempo fa, piega nuovamente le zampe posteriori in un posto più carino.

Ci sono altri esapodi, alati e non, e finalmente mi sento al sicuro. Se fossi un impollinatore avrei tanto cibo ma non vedo frutta marcia, mi toccherà attendere.

Oh Carla prende la tavoletta di cioccolato ma non sembra volerla mangiare. Certo, che stupida. Se gli serve per i predatori non la mangerà mica! Però produce onde sonore verso di essa.

Sento la parola triste, non so cosa significhi ma è una parola da far vibrare le ali. Penso che la userò anche io. Potrei forse bere un po' dai suoi occhi non composti, che sembrano raccogliere del liquido. Ma non mi fido, potrebbe essere una soluzione all'insetticida e io sarei Morta senza essermi riprodotta. E nutrita.

E poi sono già svuotati. Forse hanno bisogno di far uscire l'acqua per mantenere la temperatura corporea. Ingegnosi, questi Grandi Bipedi.

Però ora che ricordo, la Drosophila mi ha detto che svuotano gli occhi non composti di liquido quando parlano della parola Morte, e che è un evento non bello. Quindi forse triste significa evento non bello.

Ecco, lo immaginavo, è colpa mia. Deve essersi accorto che sono scappata. E d'improvviso pensa a un evento non bello. E rigetta liquido dagli occhi non composti.

Forse è vitale per Oh Carla darci in pasto all'ottapode. Se l'ottapode è anche un loro predatore e non riesce a nutrirlo magari poi arriva l'ottapode gigante e la divora. In fondo sembra che per riprodursi ci mettano tanto tempo. Da quando sono uscita dalla scatola non ho visto larve, né uova.

***

È passato tantissimo tempo. Se avessi saputo che avrei passato gran parte del mio ciclo vitale a studiare gli umani avrei rinunciato. A parte la tavoletta di cioccolato contro i predatori e i vari sistemi di scivolamento trovo il loro ciclo vitale piuttosto noioso. Da quando siamo usciti dal Grande Alveare a quando siamo tornati non saprei quantificare il tempo trascorso.
Forse ventimila miliardi di bzzz.

Ora devo fare la mia scelta. Posso tornare nella colonia restando tra i Capelli finché non c'è la lunghezza d'onda giusta di luce perché si apra la colonia, o entrare di mia spontanea volontà dall'ottapode. E salvare Oh Carla da morte certa.

In fondo sono sfortunati questi Grandi Bipedi, vivono spostandosi da una cella all'altra, conducono una vita noiosa e pare sia molto difficile riprodursi. Si nutrono a stento e anche con abbondanza di cibo sembrano non terminarlo, o non metterne via.

Sono costretti a ronzare in continuazione in celle fredde, senza uova né larve e senza cibo a disposizione.

In fondo sono fortunata, la mia colonia continuerà a vivere e a riprodursi anche se non lo farò proprio io. Qui non vedo colonie, e quando ci sono non hanno finalità.

I Grandi Bipedi sembrano per lo più solitari, ronzano solo se si incontrano, ma non ronzano tutto il tempo.

Magari posso aiutare la sua colonia dall'invasione dei Grandi Ottapodi e offrirmi io al piccolo ottapode. Magari l'ottapode mangia le loro larve.

Sapete cosa faccio? Attendo la lunghezza d'onda giusta e dai capelli scivolerò in un lampo tra i pedipalpi dell'ottapode. Per me non è un grosso sacrificio.

Non so cosa significhi la parola sacrificio, ma vibra tanto e mi sembra una parola impegnativa, quindi penso che la userò.

Pazienza per la riproduzione. Oh Carla e la sua colonia potranno riprodursi e generare Grandi Uova, e poi Grandi Larve e così via.

Per me sarà un momento. Forse per lui biliardi di biliardi di bzzz.

Alla fine dicono che il tempo sia relativo. Non so come faccio a saperlo, forse il mio DNA è stato mescolato con quello dei grandi bipedi mentre lo studiavano e io so molte più cose degli altri membri della mia colonia. O forse qualcuno lo ha detto vibrando le ali a Oh Carla.

Fatto sta che non mi pesa scivolare lentamente tra le zampe del Ragno attendendo la Morte.

È un breve istante.
Fatto circa di un milione di bzzz.


Canzone del giorno: Starsailor Way To Fall

21 giugno 2018

Il mio specchio

C'è stato un periodo, quando ero più piccolina, in cui avevo paura degli specchi. Mi lavavo la faccia molto velocemente e cercavo sempre di alzare lo sguardo su di essi in modo lento. Temevo di vedere qualcosa che potesse non piacermi.
C'erano tante altre paure, ma io non le esprimevo mai.
Erano tutte irrazionali, ma non sapevo ai tempi che la maggior parte delle paure lo sono.
Così sentivo dei rumori strani e restavo immobile per capire se potesse essere stata solo una sensazione.
La TV a volte si accendeva da sola e io lentamente mi avvicinavo alla camera da letto per capire cosa fosse successo. Una volta le ante dell'armadio del posto dove dormivo si sono chiuse all'improvviso da sole.
Non scappavo mai, non manifestavo mai niente. Cercavo di razionalizzare.

La paura degli specchi è durata un po': la paura che mi restituissero una visione non gradita.

Mi lavo accuratamente le mani.

Ogni tanto con la coda dell'occhio vedo qualcosa. Ma so bene che non è nulla. Potrebbe anche solo essere qualche insetto, ecco perché seguo quella visione con lo sguardo. Magari è un Geotrupidae. O una semplice formica.

Tolgo il vecchio cerotto. Con esso viene via la garza con fitostimoline, Piena di essudato secco, ma anche vivo. È giallo, lo annuso. Non puzza, non è pus, non è infezione.
La ferita è un occhio rosso che mi osserva.

Quando ero piccola mia madre mi ha insegnato a usare l'olfatto per capire se un cibo era andato a male. 

"Se la ferita si infetta sappi che la prima cosa che sentirai è l'odore, prima ancora della febbre".

La camera da letto dei miei in particolare non era un luogo molto amato. Ci entravo di corsa, facevo ciò che dovevo fare e uscivo di corsa.
C'era un grosso specchio davanti al letto che era in realtà l'anta di un mobiletto. Dentro c'erano delle cose.

Fotografo tutto. Non mi sembra migliorata anche se faccio tutto quello che mi viene chiesto.
Mi lavo di nuovo le mani, un po' di essudato ha sporcato la pelle attorno alla ferita. Apro la soluzione fisiologica, recupero qualche garza e la bagno con la fisiologica. Pulisco delicatamente solo la pelle attorno. Non posso lasciare macchie di essudato attorno alla ferita.
Sanguina.
Di nuovo.

Mi guardo allo specchio.
Mi guardo allo specchio.

La ferita è tonda, rossastra. Sembra un'isola piena di materiale ferroso circondata da un mare rosato.
Un solco attraversa il seno da quasi il centro dello sterno fino al capezzolo, come un'avvallamento che si evidenzia ogni qualvolta muovo il braccio.
Un orribile avvallamento.

Col cerotto non si vede.

Decido di provare con la connettivina invece che con le fitostimoline. Non la amo particolarmente ma non so cosa fare. Ogni volta che tolgo la connettivina mi lascia un segno delle fibre della garza. Un reticolato, impresso nella mia isola rossa.
Ne taglio un pezzetto, la piego a metà e la posiziono sulla ferita.
Prendo il cerottone. Ne taglio via un angolino per lasciare respirare il capezzolo. Lo posiziono con cura e con delicatezza lo faccio aderire bene alla pelle. E quasi subito il cerotto si colora di giallino. Sta venendo su qualcosa.

Sono passati quasi 4 mesi.

Mando le foto a RagnoB, le ritaglio accuratamente perché non si veda il capezzolo. Le mando anche la foto dell'essudato. Le dico di non badare al rosso, la fotocamera di questo telefono (che ha fatto anche fatica a mettere a fuoco) satura molto i colori. È meno rossa anche se alla fine ha sanguinato.

"Ho scritto per ulteriore consulto ad alcuni professionisti tra cui l'infermiera con cui hai parlato... Se riesce prova a procurarsi una medicazione avanzata (acquacel AG). Se non ci sono intoppi ci vediamo martedì ed io settimana prossima te la porto. Proviamo a fare medicazione avanzata per un po' e vediamo come va, eventualmente si prova altro"

Il mio corpo si ribella, non vuole guarire.

Lo specchio si ribella e mi restituisce un'immagine di me che non voglio vedere. Il mio occhio rosso, il mio avvallamento, non paesaggi fantastici ma il mio corpo.
Sono arrabbiata.

Una volta ho visto qualcosa nello spazio che divideva il mio lettino dal letto di mia sorella. Probabilmente era una piccola allucinazione, forse dovuta a una fase di sonno leggero.
Era un volto con gli occhiali.

Chiusi gli occhi e quando li riaprii non c'era più niente.
Non c'è spazio per la paura.
Ma ne ho molto, moltissimo, per la rabbia.

19 giugno 2018

Posate

You are Lisa Simpson


Madre ha l'adorazione per le posate piccoline. Ci sono cucchiaini minuscoli con cui si fa fatica a prendere lo zucchero. Microforchettine per le olive. Cucchiai e simili di dimensioni quasi inutili.

Ieri cercavo di prendere dei pezzi di insalata di patate con un cucchiaio minuto da bimbi delle tartarughe ninja. E così ho preso una patata per volta.

Sono poi tutte spaiate, tutte diverse.

C'è poi chi invece usa la posata perfetta per ogni occasione e per ogni piatto. Cucchiai capienti per l'insalata di patate, ad esempio, e tutte in tinta e appaiate. Ha il servizio apposta se qualcuno dovesse mai bussare alla porta all'improvviso. Piatti tutti uguali, anche.

C'è una parte di me che pensa sia inutile cercare sempre le posate perfette per ogni occasione, ma un'altra che crede sia difficile interfacciarsi con il cibo se si hanno sotto mano le posate sbagliate. C'è anche da dire però che quando vuoi nutrirti e hai sotto mano qualcosa che ti soddisfa, puoi usare qualsiasi posata del mondo.

Anche quella più storta.
Puoi anche usare le mani.

La verità è che esistono delle priorità e quando si bada solo alla superficie forse non si sta mettendo a fuoco l'essenza. E l'essenza è che ci dobbiamo nutrire.
La priorità è quella, tutto il resto è inutile.


17 giugno 2018

Regressione

Quella sera in cui mio padre è mancato mia sorella mi mandò un SMS: "Siamo al Giovanni Bosco. Papà è grave, aspettiamo che il medico ci dica qualcosa".

Tenni quel messaggio fino a qualche anno fa, quando decisi che era ora di lasciarlo andare e di passare oltre.

Oggi mi tingo i capelli di turchese. È una forma di regressione voluta. Non funziona, non funziona proprio il progresso in me.

Le persone vanno lasciate andare.

La mia fiducia nel mondo

Estate.
Tempo di gambe scoperte e di furti di smartphone.
Era luglio l'anno scorso, un dopocena, esco di casa per andare da Gigi: forse per guardare un film, non ricordo.
Porto anche un pezzo di torta con la sua bella confezione di cartone.
Ti passo a prendere?
Ma figurati, prendo il bus.
Con le mie cuffione colorate di blu, il mio affezionatissimo Oneplus One in mano che proprio quel dicembre avrebbe compiuto 3 anni, l'unico telefono di cui io sia stata pienamente soddisfatta, le dita incastrate nelle apposite fessure del contenitore di cartone della torta nell'altra mano mi avvio.

Il 57 però è a corsa limitata, quindi dovrò fare un pezzo a piedi, tenuto conto che era un po' che stavo aspettando, decido di prenderlo comunque.

Scendo e attraverso una zona non proprio bella. Da quando sono qui sono stata sgridata diverse volte perché giro a piedi passando anche in zone particolari ma mi sono sempre sentita abbastanza tranquilla.

Sono ormai in via A. e incrocio un ragazzotto sulla mia sinistra che in un istante mi strappa via di mano il cellulare e corre via.
Rimango interdetta.
Un ragazzo dal balcone mi urla di andare verso il parchetto. Ma poi? Lo raggiungo e poi?
Gli chiedo se per cortesia mi rida' il cellulare? Guarda fammi fare un backup delle foto e poi domani te lo rendo. Seriamente oh.
Arrivo a casa di Gigi, entro e tutta agitata esclamo
Mi hanno rubato il cellulare.
Ma dove?
Qui sotto.
Imbraccia il suo marsupio Andiamo
Ma andiamo dove? Ascolta fammi usare il pc che lo cerco e lo blocco.
Android ha la possibilità di trovare il telefono usando la geolocalizzazione (Ma perché la tieni attiva che consuma un sacco di batteria? Ma perché blocchi il telefono? Ecco perché) e in effetti il telefono si trova in un palazzo non troppo lontano.
Andiamo
Ma andiamo dove? Gigi stai calmo. Cosa facciamo? Citofoniamo a tutto il palazzo chiedendo dove tengono il telefono? Pace, è andata, calmati.
È paonazzo in viso. Gigi è molto protettivo nei miei confronti. Fa avanti e indietro in casa.
Non se ne capacita, forse si sente un po' in colpa. Cerco di tranquillizzarlo per quanto posso.

Sistemo il mio vecchio Nokia N70 e lo uso con gli SMS, adorabilmente vintage. Poi acquisto lo smartphone migliore con il budget che ho, il Huawei P9.

(Quasi) estate.
Tempo di gambe scoperte e furti di smartphone.
Era ieri, vado alla fermata del bus per avvicinarmi al centro e fare un po' di foto al Torino Pride ma del bus non c'è traccia. Molti sono stati deviati per l'evento e gli orari dei passaggi non sono propriamente aggiornati. Penso che c'è il sole, e non è male passeggiare fino in piazza Sofia per prendere il 18.
Cellulare in mano (per un periodo non lo tiravo nemmeno più fuori dalle tasche o dalla borsa ma ultimamente ho attraversato anche zone particolari e non è mai capitato niente. Vedo le altre persone tranquille e ho riacquistato la mia fiducia nel mondo), cuffie nelle orecchie e in compagnia dei Megadeth mi avvio per piazza Sofia. Prima di arrivare al ponte sulla Stura incrocio due persone, non le vedo bene in viso ma mi seguono con lo sguardo e dicono qualcosa, anche se non penso siano rivolte a me.
Non ti voltare Carla, non è niente. Non ce l'avevano con te.
A circa metà del ponte sento una mano estranea sulla mia mano destra. Mi volto e cerco di tenere il telefono anche con la mano sinistra. Lo guardo bene in volto. Occhi chiari, capelli rossicci e ricci, magro, alto, pelle rossastra. Mi strappa il telefono dalle mani e corre via, velocissimo.
Una gazzella. Lo perdo quasi istantaneamente di vista.
Potrebbe avere preso il sentiero dentro il parco Colletta o avere girato per lo stradone che porta al curvone delle cento lire. Non penso di avere perso di nuovo un telefono. Penso alla mia cartella con le foto dell'intervento, di quando ero in ospedale con C. Non ho sue foto e anche se lì non si vede perché è voltato mentre dorme sulla sedia, stanco, appoggiato al muro, è l'unica foto che ho. Penso alle foto del seno ferito che stavo seguendo medicazione dopo medicazione per vedere i progressi, tutte in una scheda esterna e facilmente accessibili. E in un istante mi prende lo sconforto. Non mi interessa dover spendere dei soldi (anche se scarseggiano sempre) per un nuovo telefono, ma ho smarrito tutto il resto.

Ho una rabbia, sto girando per casa come un pazzo.

La mia fiducia nel mondo, nelle persone, che sento sta venendo a mancare.
E quel silenzio, così pesante, come l'assenza delle immagini che non potrò più guardare.

16 giugno 2018

cleena has quit #satanacorp

Sei preziosa.

Guardo il mio corpo nudo allo specchio. Se fossi un uomo probabilmente mi piacerebbe. È magro, ma morbido.
Accarezzo con la mano destra la curva del fianco, ci sarà una formula matematica che la descrive ma è più bella se toccata con mano.

Sono soddisfatta di quello che vedo: un po' meno del viso. Sto anche quasi accettando il mio povero seno ferito e impari. Sì, per avere 37 anni e non fare praticamente nulla sono fortunata.

Sei sicura di non avere 20 anni?

Quando torno nel mio vecchio quartiere sento un odore particolare, che è un odore di ricordi e di veri amici. Penso a loro e il ricordo si confonde con le immagini del film "Stand by me". Sempre insieme, noi, sempre in pattini per un certo periodo.


Ero l'unica ragazza del gruppo.


Avevo 16 anni, ed era l'estate prima della mia biopsia che rivelò il secondo tumore. Campeggio a Levanto con Alelè e Ivano. Mai andare in campeggio con due ragazzi, loro volevano solo cercare fanciulle e io mi sentivo un ostacolo.
Una sera uscirono lasciandomi da sola in tenda a piagnucolare. Così uscii da sola e conobbi una signora in campeggio che mi invitò a una spaghettata di mezzanotte da lei e dalla figlia, mia coetanea.

Arrivò il ragazzo dello spaccio. Lo avevo visto qualche giorno prima, gli avevo chiesto del burro per la pasta. Mi guardò intensamente e mi disse Offro io. Fisso sui miei occhi. Un viso che i seguaci di Lombroso stanno ancora scrivendoci sopra un trattato.
Chiacchierarono del più e del meno. Lui si allontanò un attimo e la signora mi disse Questo ragazzo ha un problema, scopa troppo.
Tanta schiettezza mi lasciò perplessa. Lui aveva 26 anni, Ivan.
Mi divertii, senza i miei amici, e a fine cena Ivan tirò fuori un gettone della doccia.
Ci facciamo una doccia insieme?
Va bene ma non ero molto convinta.

Non facemmo la doccia ma mi portò direttamente nella sua roulotte. Ivan scopava troppo, a sentire la signora, ma non aveva protezioni. Quindi non facemmo niente e gli raccontai la mia storia.
Dormii lì e l'indomani tornai alla tenda.
Alelè mi fece una lavata di capo che ancora la ricordo. Che erano preoccupati, che non sapevano dove fossi, che lui era responsabile (?) per me. Continuò anche sul treno nel viaggio di ritorno, io guardavo fuori dal finestrino.
Non ne parlammo più, non ne parlai più.

Qualche tempo dopo mi arrivò una lettera da Ivan, non ricordo come mai gli diedi il mio indirizzo, forse aveva espresso l'intenzione di scrivermi. In allegato un braccialetto e una sua fototessera.
Diceva di essersi innamorato, con una grafia infantile, tutta in maiuscolo.
Diceva che pensava al mio intervento e che aveva pianto per me.
Tu para me es una chica mui preziosa.
Mi scrisse.
Hasta luego mio amor Punkarla.
Avevo i capelli biondi alla radice e arancioni sulle punte. Erano quelli, anni (sono questi, anni) in cui a settembre i miei compagni di classe non sapevano come sarei arrivata conciata.

Non ho mai risposto. Non gli ho mai mandato la foto che mi aveva chiesto. Ho indossato il braccialetto fino a quando non mi ha lasciato segni blu sul polso, poi l'ho riposto da qualche parte e lì è stato dimenticato. Come la lettera, come Ivan.

La storia di una canzone.


Avevo 21 anni, forse 22. Chattavo ai tempi su IRC e conobbi tante persone con cui ancora oggi mi sento e che non ho mai visto dal vivo. Internet è cambiato, noi siamo rimasti più o meno simili.
Lui si chiamava Sebastiano.
Un musicista, mi mandava i suoi pezzi e io gli scrivevo le immagini che mi arrivavano, violente, senza alcuna premeditazione. La spiaggia, il fuoco sulla spiaggia, persone che danzano, il buio.
Sebastiano a volte mi chiamava sul fisso di casa, si sfogava tanto con me. Catanese e i capelli lunghi, magro, magrissimo, sembrava un'iconografia di Gesù come ce l'hanno sempre propinato.
A me un po' piaceva Sebastiano.

Lo avevo conosciuto da un tale Angelo che frequentava la stanza #satanacorp, una chat di piccoli hacker. Io ero amica di Hyo, Rubin e Angelo (di cui stranamente non ricordo il nick - ricordato alla fine della stesura del post. Era Green_Beret). Angelo era venuto a Torino da Catania per un hackmeeting e con lui c'erano Rubin e Red_Owl di Parma.

Io ero bionda e carina. Parcheggiai la macchina fuori dalla cascina in cui i ragazzi si erano accampati. Molti di loro si erano portati il computer fisso e giravano con questi enormi case. Si erano collegati a una rete in maniera illegale, ovviamente, e così avevano anche portato la corrente lì dentro.
Io cercavo Rubin.
Le stanze in questo posto avevano nomi particolari che non ricordo. Mi guardavano.
Tra i nerd io ero Penny e ancora Penny non esisteva nell'immaginario collettivo. E mi sentivo tremendamente osservata e fuori posto.

Scusa, conosci un tale Rubin?
No, aspetta. EHI QUI DENTRO C'È QUALCUNO CHE SI CHIAMA RUBIN?
Silenzio. Teste ricciolute intente a guardare fisso il monitor, rumore di tasti pigiati ossessivamente.
No, qui non c'è.

Rubin era molto carino e consapevole di esserlo. Io poi mi presi una cotta per Hyo che non era lì ma che conobbi a Genova in un'altra situazione. Ma questa è un'altra storia. Ora Hyo è un fisico ricercatore coi controcazzi ma sapevo che aveva un cervello della Madonna.
Lui era quello che mi faceva connettere gratis a internet. Quello che mi aveva aiutata al telefono a installarmi linux.

Io, la sapiosessuale già allora, prima che coniassero il termine.

Sebastiano non l'ho mai conosciuto. Ho avuto la possibilità per un periodo perché venne a studiare a Milano come fonico, in una scuola importante e costosa. Ma C mi fece una scenata di gelosia. Sebastiano a quel tempo già non mi interessava più.

Ogni tanto mi mandava dei pezzi non suoi e mi faceva scoprire nuove canzoni.
Mi passò quella canzone che ogni tanto torna nella mia vita (è una ninna nanna, eccola qui).
Ne parlai qui nel mio blog.

A quel post rispose l'autore della canzone con cui sono rimasta in contatto negli anni. Finché non ho chiuso il mio account (cosa che fece anche lui, tralaltro).

In questi giorni ho ripensato alla dolcezza di quella canzone, all'essenza di cui parla. Ho cercato l'autore della canzone di cui non ho più il contatto su facebook. Trovo la sua pagina, gli scrivo. Mi risponde quasi subito.

Certo che mi ricordo, felice di rivederti! Ti ho appena inviato richiesta di amicizia, ho chiuso il vecchio account precipitosamente tempo fa e mi sono perso un sacco di amici. Per accordi e brano nessun problema, ora sono in giro ma appena ho un momento te li mando! 

Gli ho chiesto gli accordi, voglio riarrangiarla in ukulele. Ci penso un attimo.
Gli rispondo.

Non voglio sembrare una stalker, ma ti lascio il mio numero.

Ma che stalker, figurati. Ti lascio anche il mio, nel caso ci smarrissimo ancora tra i flutti digitali.

Io non lascio quasi mai il numero di telefono. Ma siamo in contatto da 12 anni. Seguivo il suo blog che ora non esiste più. Sentivo i suoi pezzi riarrangiati, li ascoltavo nel mio lettore mp3. La sua versione di Alleluja è ancora la mia preferita.

Penso alle persone che sfiorano di tanto in tanto le corde della mia vita, qualcuna suonando davvero qualcosa di importante, qualcuna a margine, come un ritornello stonato e dimenticato.
Poi però qualche nota riemerge, ed ecco il racconto, la storia.

Ecco Franci Omi, uno sconosciuto che ha suonato corde che tornano di tanto in tanto, con quel pezzo e altri suoi.
C'è il calore qui, c'è il tuo odore qui; segni semplici del tuo vivere.

Penso alla storia de Il Grande Omi, che ai tempi comprai anche un libro che ne parlava (anche l'autrice del libro commentò quel post).

Penso ad Hyo e chissà che fine ha fatto Rubin. E Red Owl pieno di paranoie che temeva lo spiassero. E Sebastiano. E Ivan.

E io? Chissà se faccio parte di qualche storia, chissà se ho suonato qualche corda. Chissà se sono rimasta nella memoria di qualcuno, se ho cambiato di un piccolo angolo la traiettoria di vita di qualcuno di loro. Penseranno mai a quella biondina che è arrivata all'hackmeeting quella sera? Si chiederanno che fine io abbia fatto?

Qualcuno scriverà di me nel suo diario immaginario? E che musica mai potrò essere?

red_owl: Oh ma quella cagacazzo che alla fine ci ha portati a mangiare al McDonald's come si chiamava? cleena mi pare.
rubin: Sì cleena che pareva il nome di una marca di fazzolettini.
green_beret: Chissà che fine ha fatto
hyo: Io l'ho vista poi un paio di volte, è anche venuta a Parma a trovarmi
rubin: Ah sì dai, l'avevamo vista anche a Genova, quando giravamo col furgone di tuo padre e ci lavavamo con le bottiglie d'acqua minerale per strada.
red_owl: Era l'hackmeeting del 2003, quanto tempo.
rubin: Va bhe, ciao ragazzi vado a dare la pappa alla bambina, ci si sente.
hyo: Sì anche io torno sul mio progetto.
red_owl: Oggi è pieno di scie nel cielo.
green_beret: Tu non sei normale. IMHO. Vado anche io che lunedì ho un'udienza. È stato bello risentirvi.
hyo has quit #satanacorp
green_beret has quit #satanacorp
rubin has quit #satanacorp
red_owl has quit #satanacorp

cleena has joined #satanacorp
cleena has quit #satanacorp

13 giugno 2018

Piccoli piastrellatori crescono

Devo dirti una cosa. Importante.
[...]
Tu sei eccezionale.
Pretendile certe cose per te. Non ringraziare per le briciole. Prenditi quello che ti meriti, Carla.
(Così parlò Andrethustra)

Andrea è diventato un amico importante, è un empatico e percepisce immediatamente quando qualcosa non va. Il suo pregio è anche il suo più grosso difetto: si carica sulle spalle pesi troppo grossi e sembra non liberarsene mai. Ecco perché ha male alla spalla (ed è costretto al pilates, eh eh).

Una delle cose che più mi rende fiera di fare (raramente) insieme a lui è la serata giochi. Andrea non porta molte persone a giocare con sé. Io mi comporto come la regina della serata, la Penny (però molto meno figa e, spero, parecchio più intelligente) che non capisce un cazzo delle regole. Quella che sbatte gli occhioni e a ogni mossa sentenzia "Ho fatto una cazzata" (semicit.). Quella che a metà gioco dichiara di non avere capito le regole.
Quella che, nei giochi di strategia perde e confonde gli altri perché nessuno capisce quale strategia stia adottando (quella del caos, molto probabilmente).

E me la tiro un sacco eh?
Con l'unico amico che conosco appassionato di giochi da tavolo (oltre Andrea, ovvio).
"Oh, M, sai dove mi ha portata Dado? Ehhhh sapessi, da un tizio che ha ideato un sacco di giochi, e sai cosa? Abbiamo giocato ad Azul, troppo figo!"
"Oh cazzo ormai sei in mezzo ai vips, nVidia"

Giocare con dei giocatori esperti è come cercare di trovare una legge fisica in una stanza piena di probabili premi nobel per la fisica. Ecco.
Io sbatto gli occhioni, sempre e comunque.

L'altra sera abbiamo giocato, in ordine, ad Azul, Level 9 e Las Vegas.

Mi sono piaciuti tutti, e sono esattamente nell'ordine di gradimento. Azul è stato il mio preferito. Per dire quanto io sia stata Penny: "Uh che carine queste tesserine, sembrano le Azulejos portoghesi". "Ehm sì, per quello il gioco si chiama Azul".

L'obiettivo è fare punti (grazie al cazzo Carla, come a dire che l'obiettivo è vincere). Dato che non sono una grafica ma ho un occhio per l'estetica, le tesserine belline mi sono piaciute un sacchissimo. Vorrei spiegarvi le regole ma continuerei solo a dire che l'obiettivo è fare punti quindi fidatevi, è un sacco bello (ma costa pure un sacchissimo, quindi next stipendio, penso).

il tabellone in cui segnare i punti e posizionare le tessere

le tessere al centro del tavolo
la plancia segnapunti

fase di proposta


Le regole qui (sembra noioso ma è molto carino).




Piccola nota di merito anche per Vudù, nuovo arrivato di casa, molto carino e divertente (da compagnia!).

È tutto sbagliato

Quando sogno il sangue c'è qualcosa che non va

Siamo a casa di mia madre, nella mia cameretta, nel mio letto. È un evento strano, e mi dileguo un attimo per andare in bagno. "Aspettami". Scendo dalla scaletta del letto a soppalco, percorro il corridoio buio, apro la porta del bagno e accendo la luce. Noto un'orma lunga e insanguinata per terra nel corridoio poco fuori dal bagno. Il piede destro, nudo. Entro e mi do' una sistemata quando vedo che anche gli asciugamani sono insanguinati. Torno in corridoio e sento parlare dalla sala. Sei tu che parli con Madre in modo sommesso. Apro la porta della sala ed è tutto buio. I mobili sono disposti in modo diverso, e c'è una fievole luce data da una vecchia tv a tubo catodico con effetto neve. Di fronte tu, sul divano, vedo solo il tuo contorno perché c'è molta meno luce di quanta ce ne dovrebbe essere. Con un quotidiano aperto che ovviamente non potresti riuscire a leggere, con tutto quel buio. Accendo la luce. Ti volti verso di me, Madre in piedi. "Che succede? È pieno di sangue in bagno!"
"Ma no, mi sono fatta un taglietto" e mi mostra le mani integre.

Mi sveglio, completamente sudata.
"È tutto sbagliato".

09 giugno 2018

Vibration

Le tonalità basse sono quelle che fanno vibrare. Le senti vibrare nel petto, dentro la cassa toracica. Disturbano quasi il battito cardiaco. Ti senti immensamente grato per quelle sonorità perché senti che stanno smuovendo polvere e detriti lasciando spazio all'essenziale.

Quando qualcuno mi fa dono del suo tempo so che mi sta regalando la cosa più preziosa che ha.
Il tempo è raro, e prezioso.

La tua presenza è una tonalità bassa.

Grazie.
Ti bacio, ci vediamo prestissimo.



08 giugno 2018

Le mie f.a.q.

[post mai pubblicato del 6 novembre 2016]


Sarebbe bello, conoscendo qualcuno di nuovo, che questi ti presentasse le proprie f.a.q. con le relative risposte. Sai che comodità?
Io non sono capace a leggere dentro me stessa, figurarsi le altre persone. Oltre al banalissimo intuito di "sì ok è uno affidabile" oppure "no questo è nammerda" il mio radar a lungo termine è totalmente sfasato. Le persone che conosco, accanto a me e dopo lungo tempo, passano dall'essere calme all'essere nervose. Da seminormali a malfunzionali. Da amorevoli a gelosi.

Ah non parlo solo di uomini, intendo proprio persone. LEPERSONE.
Ho la proprietà di tirare fuori il peggio dagli altri. Per loro è una catarsi, per me uno scatarramento.

Così comincio io, ecco le mie f.a.q. Leggetevi bene le domande ma soprattutto le risposte e studiatevele.

1. Sei davvero vegetariana?
Sì, ma non troppo. Cerco di non mangiare mai bestie ma se devo scegliere e in situazioni eccezionali le mangio. In genere cerco di non mangiare mai carne da allevamento intensivo. Né carne e né pesce perché quest'ultimo non so come è stato pescato o in che allevamento ha vissuto. La domanda intrinseca a questa non la formulerò ma indicherò solo la risposta: il tonno è un pesce. I vegetariani non mangiano pesce. I vegetariani non mangiano tonno.

2. Ti piacciono gli insetti? Really?
Sì io adoro letteralmente gli insetti, soprattutto quelli eusociali. Per intenderci, formiche e api ad esempio. Amo il fatto che in esserini così piccoli ci sia tutto quello che serve a mangiare, cagare e guarda un po', anche fare all'amore. Ovvio, non possiedono che gangli nervosi ma chi se ne frega. A volte vorrei davvero trasformarmi in un insetto per qualche minuto. E smettere di pensare.

3. Ho sentito che coltivi piante carnivore. Ma cosa gli dai da mangiare?
Ecco, per le persone fuori dall'ambito delle piante carnivore questa è una domanda quasi doverosa. Insieme alla più classica "ma mordono?". Noi appunto di questo mondo cerchiamo di non farci rivoltare le viscere ogni volta che ce lo chiedono ma no, mangiano da sole, non sporcano e sono bravissime. Peccato che io non le coltivi più.

4. Ti piace stare in mezzo alla gente?
Detesto le persone.

5. E perché parli con tutti allora?
Perché spero di detestarle di meno.

6. Come mai hai quelle cicatrici al collo?
Un chirurgo un giorno ha deciso che avevo dei pezzetini di me stessa in più e me li ha tolti. Il resto è storia saputa.

7. Come mai quei tatuaggi? E quando sarai vecchia?
Risponderò con un'altra domanda: come mai quella montatura di occhiali di merda che già ti porta avanti con gli anni? Quando sarò vecchia sarò vecchia, solo molto più cool.
Ah perché i tatuaggi? Non li avevo mai fatti prima per paura del dolore, il dolore è una cosa che mi spaventa enormemente. Ma ho preso coraggio e ho fatto il primo. E nello stesso giorno il secondo e non mi hanno fatto per niente male. Così ho optato per il terzo e non ho mai sofferto così tanto. Nonostante ciò, a ruota sono arrivati il quarto, il quinto e il sesto. Non appena troverò di nuovo un lavoro farò il settimo. Così non mi rompete le palle sulla storia dei tatuaggi dispari.

8. Cosa ti fa soffrire di più in assoluto?
L'indifferenza. E il dolore fisico. Ma molto meno rispetto al primo.

9. Non sei mai triste?
Avoglia, ma lo maschero benissimo. Puoi capire il mio malesserometro da alcune cose.
In genere amo mangiare. Se smetto di mangiare sto male (però divento figa quindi wow). Detesto poltrire troppo. Se dormo tutto il giorno vuol dire che sto male. È davvero easy.

10. Quando stai male come puoi essere tranquillizzata?
Lasciandomi da sola.

La mia mancata integrità

Probabilmente hai attorno persone miopi [nel cervello], oppure [peggio] che vedono e rosicano e quindi non te lo dicono che sei eccezionale.
Ma non sei sbagliata tu.
È come se Mozart fosse cresciuto in un’isola di indigeni sordi e dediti al culto delle proprie feci.
“Ma che cacchio fa quel tizio ahahahaha” avrebbero riso avvolgendo stronzi in una foglia di banano.
Il problema non ce l’ha Mozart.
 

Naaaaah alla fine sono una mediocre. 
Ogni tanto cadi nell'errore di pensarlo. Sempre più di rado, per fortuna

Mercoledì sera sono stata a una pizza coi colleghi del secondo lavoro. Eravamo in 18, io dividevo il tavolo a metà.
Alla mia sinistra i miei colleghi del vecchio ufficio, tutti trasferiti nel nuovo posto, come me. Un appartamento vicino piazza Statuto. Alla mia destra i nuovi colleghi. Qualche venditore, una segretaria, un paio di nuove colleghe, il nuovo boss.
Ero in una posizione in cui non potevo sentire bene né cosa dicevano da una parte né dall'altra.
Il mio ex capo, nel gruppo a sinistra, parlava male di chi non c'era. Ho sentito la parola finanza. Ho percepito sue confessioni sulla ex fidanzata, sulla figliola, sul fatto che volessero andare a bere dopo.
Alla mia destra parlavano di lavoro. Un venditore ci provava in modo poco sottile con una collega la cui postura non dava spazio al dubbio. Era pronta all'accoppiamento.
Che ridere se gli approcci sessuali del genere umano fossero raccontati come puntate di animal planet.
"Ed ecco a voi un giovane Homo sapiens (ma poco sapiens) maschio compiere i suoi primi rituali di accoppiamento. Avvicina un giovane esemplare femmina (e che esemplare) e le offre da bere. In tutta risposta la femmina decide di non procedere con il rituale e gli volta le spalle, chiaro segnale che non è disposta a concedersi per l'accoppiamento. Il giovane maschio tenta allora con un altro esemplare".
Io sono lì in silenzio, di poca compagnia. Non ci volevo nemmeno venire (disse lei sbattendo i piedini per terra) ma l'ex capo ha insistito così tanto, soprattutto sul fatto che ci fossimo tutti, che pensavo volessero darci una comunicazione di lavoro. In un posto in cui le comunicazioni importanti vengono date sulla chat di gruppo di lavoro di Whatsapp è lecito pensarlo.

Ultimamente il mio radar delle prime impressioni è starato. Devo farlo riparare. Tutte le persone che a pelle mi stanno sulle balle sono in realtà persone interessanti, o carine e dolci.
K è un esempio. Cubana, 20 anni, una prorompente femminilità e il sorriso sempre pronto. Una ragazza dolcissima che però in prima battuta mi era sembrata provenire da un altro pianeta, a cui ora però sono molto affezionata. E V, del primo lavoro, che mi pareva una cacapalle unica e invece è una persona molto interessante. Quando le ho detto del mio secondo lavoro mi ha chiesto se cercano. "Sempre" le ho risposto. Così le ho fatto avere un colloquio.

Alla cena il nuovo boss ha parlato di questa cosa, così gli ho chiesto come le fosse sembrata.
"Ah, molto molto sveglia, mi piace. Le darei io una bella posizione."

La chiara allusione (illusione) sessuale ha fatto ridere un po' tutti. E io?
Non ho detto niente.
Per una cosa del genere di solito mi incazzo, ma mi sono piegata al gioco. Ho accennato una risata nervosa e ho detto "Ok, io non ho sentito niente, e non voglio saperne niente".

Ma salutato tutti, preso l'ultimo bus per casa (mentre loro sono andati poi a bere fino alle due e mezza di notte. "Ma no Carla rimani, A ti ospita a casa sua, ha un cuore grande, sai? Si fa piccolo piccolo in un angolino del letto per lasciarti spazio" - anche no, grazie) mi sono sentita veramente male. E anche il mattino successivo. Mi sembrava (e così è stato) di essere venuta meno ai miei principi.

Così per esorcizzare le mie colpe l'ho detto a V.
E sapete che è successo?
Si è fatta una grassa risata.

Noi donne siamo purtroppo abituate a essere trattate come oggetti sessuali. Probabilmente io avrei commentato con un "che schifo". Perché ha detto una cosa del genere, davanti ad altri colleghi, a una cena di lavoro, quando lei non era presente e non poteva replicare.

Ma ne ho passate tante anche io e posso dire che in ogni ambito non c'è vita facile e non una reazione che possa essere corretta.
"Il capobranco, nonostante la femmina Alpha a sua disposizione, si avvicina a un'altra femmina del branco mostrando la criniera che dimostra la sua importanza e imponenza. La femmina si sdraia a terra mostrando il debole ventre per indicare il suo atto di sottomissione davanti al Re"

06 giugno 2018

Florence

Post mai pubblicato del 3 luglio 2006. Foto scattata a Firenze con cellulare d'altri tempi.

05 giugno 2018

Essere un mediocre non è una pena. La pena è accorgersene. Ma è un mediocre chi s'avvede d'esserlo?

Ti sforzi eccome. Ti forzi. In diverse cose.

Da ieri ho una nuova postazione al lavoro. Sono accanto alla finestra. Vedo una parte del parco Dora e i palazzi color pastello.
"SÌ CARLA MA FANNO SCHIFO"
Sempre il mio collega.

Eppure a me piacciono. Di concezione moderna, parrebbero dei palazzoni popolari se non fosse per la loro altezza diseguale e i colori pastello. C'è il palazzo azzurro, il giallo, il rosa, il verde.
A una certa ora del mattino la luce colpisce i balconi in modo da creare un'ombra grigia a 45 gradi sotto di essi.
Li voglio fotografare da quando sono entrata lì ma non mi è possibile.

Così ho smesso di parlare con le persone. Non per qualche forma di protesta sociale, sono molto carini i miei colleghi, ma sempre (posso dire, in maniera non cattiva) inutilmente allegri.

Spargono sorrisi e battute con una dimestichezza incredibile, come se lo facessero da sempre. Lo stand up comedy dell'ufficio.
E io guardo i palazzi.

Ogni tanto sento un vociare "CARLA COME STAI OGGI".
"Ho sonno".

E guardo i palazzi.
Ogni tanto mi concedo qualche sorriso qua e là, ma pare più una paresi che un sorriso sincero. Ho fatto un po' di improvvisazione teatrale, credevo potesse servirmi solo per i colloqui, mica per tutti i giorni.
La responsabile con lo sguardo preoccupato mi sorride sempre, e a volte mi tocca la spalla e mi accarezza i capelli. È come se mi capisse.

Badate bene, non disprezzo il lavoro, non più di quanto io abbia disprezzato tutti gli altri (bhe no dai, ne salvo un paio e tutto sommato questo è meglio, davvero meglio di tanti, tantissimi altri): è come se un'apatia mi investisse.

Tutti crediamo di essere venuti al mondo per dimostrare di essere speciali, di avere una qualche specifica funzione che d'un tratto, ci si rivelerà.

È buffo invece avere la consapevolezza di essere mediocre tra i mediocri, di sentire di non avere nessuna particolare dote e di non riuscire a canalizzare quelle poche capacità che si credono di avere.
Questo, spesso, non passa all'esterno perché molti mi trovano estremamente intelligente, brillante e creativa. Ma io sento di non essere nulla di tutto questo.

E se questa frase scritta sopra mi avrebbe fatto arrabbiare o intristire fino a poco tempo fa, ora mi lascia come quasi tutto il resto, apatica. Non posso lottare troppo contro quella che sono.

Una volta qualcuno me lo disse, mi disse di non essere una mediocre. Di trovare qualcosa che fosse mio, e soltanto mio, e portarlo avanti.

E io guardo i palazzi. Scovo la bellezza dove gli altri non la vedono. Controllo la regolarità delle discromie dell'asfalto, conto i gradini di metallo che mi portano alla passerella sopraelevata del parco Dora, cerco gli insetti cittadini che si nascondono tra le piante che irrompono violente e bellissime nelle crepe di qualsiasi cosa.

Allontano la superficialità dell'apparenza per fare mia la ricerca della vera essenza delle piccole cose.

La mia ferita insanabile

Mi trovo in un posto al confine con la Germania. Non so quale confine. Sono in vacanza con mia sorella, i miei nipoti e mio cognato.

In quella sorta di albergo in cui alloggiamo c'è una specie di piscina pertanto decidiamo di immergerci. Io cerco di fare attenzione ma mi rilasso e mi distraggo e bagno la ferita. Cioè la immergo proprio. Tant'è che il cerotto si insaguina subito e mi spavento. Decido di andare al pronto soccorso.

Per fortuna in quel posto indefinito parlano tutti italiano, anzi, hanno tutti un accanto marcatamente del Sud. Non so dove andare e finisco in un corridoio che somiglia molto al corridoio che c'è nel piano interrato delle Molinette a Torino. Una signora mi chiede se ho bisogno e le mostro il cerotto.

Ah, è meglio se ti controlliamo. Stanotte resti qui.

Ma non mi portano in una stanza di ospedale. È una sorta di biblioteca, tutta arredata in legno. Non accendono le luci, è sera e le luci dei lampioni entrano dalle finestre illuminando a tratti quella stanza tutta marrone scuro. Un materasso da salto in alto, un po' più sottile a dire il vero, di colore verde è sistemato sul pavimento.

Ma ho il cellulare quasi scarico e non ho il caricabatterie, così chiedo a mia sorella di portarmelo. Mentre mi affaccio dalla finestra di quella stanza vedo però dei ragazzini che corrono attraversando la strada e hanno il mio zaino, proprio quello che tantissimi anni fa mi regalò mia sorella, nel periodo in cui facevo su e giù da Torino a Firenze.

Ehi, quello è il mio zaino!

Guardano in alto e si fermano.

Vi prego, dentro c'è della roba con del valore affettivo. Vi do' 200 euro se me lo restituite.

Facciamo 800.

600.

Andata.

Entrano in ospedale, mi portano lo zaino e sono preoccupata perché non posso pagarli, ma chiamo mia sorella che intanto sta arrivando e penso Bhe, lei chiamerà la polizia, così siamo a posto.
In realtà questo non accade, arrivano soltanto e mentre loro sono lì vedo che hanno anche dei miei scatoloni pieni di libri. I miei libri.
Li guardo e non riesco a separarmene, eppure anche nel sogno mi dico Carla, questi libri non li hai nemmeno sfogliati e forse non li sfoglierai mai, ma non riesco a pensare di separarmene.

In un attimo di distrazione riesco a chiamare la polizia e la faccenda risulta conclusa, mentre per un attimo di distrazione la mia ferita riparte da zero.

04 giugno 2018

Il mio scatto sbagliato

Mangi con noi?
Carla ma ovvio, se mi ci vuoi

L'acqua è un elemento primordiale. Chiunque ha vissuto vicino a uno specchio d'acqua, grande come il mare o piccolo come il lago, prima o poi desidera tornarci. È come un desiderio di tornare nel grembo materno, dentro il quale i suoni sono dolci e attutiti ed esiste solo calma, e quiete.
Io non sono nata vicino a uno specchio d'acqua, sono cresciuta con gli aerei che mi sorvolavano la testa e abbracciata dalle montagne perennemente innevate.
I palazzi che coprivano il sole, l'asfalto rovente d'estate e il freddo pungente di inverno ad aspettare il bus. Amo tutte queste cose. Il freddo pungente d'inverno, le montagne innevate, gli aerei (e quando ero piccola Carla guarda l'aereo) i palazzoni, il disagio e la bellezza di una città poco italiana e molto francese.

Ma poi sono finita a Cömo. La casa in cui abitavo mi permetteva di vedere tutto il centro e il lago. E ogni mattina lo controllavo, il lago, per accertarmi che fosse sempre lì.
Andavo a passeggiare, leggevo sulle panchine sul lungolago. E poi ho trovato la mia family. Quante probabilità esistono di trovare persone che ami a un passo da te?

Quando A ha proposto una gita da fare tra noi ragazze e RagnoB ha posto il veto che non fosse lontana da Milano ho subito pensato alla mia Cömo. Avrebbero avuto modo di conoscere i ragazzi, avrebbero visto un posto piccolino ma che ritengo bello, dove ho vissuto. Avrebbero chessò, mangiato dove mangiavo, ad esempio.

Vorrei descrivervi la giornata ma penso che sia banale. Vorrei concentrarmi sulle emozioni di quell'incontro tra due luoghi non troppo vicini ma nemmeno così lontani. Il mio cuore diviso in tante città, in tante persone, e che fa fatica a restare unito. Vorrei dirvi anche che ricordo il freddo di una sera, la città vuota, la passeggiata lungo il lago e tu che passeggiavi accanto a me. E io che cercavo di stringerti e tu che ricambiavi.

E il suono dei nostri passi per le strade vuote e a volte i silenzi imbarazzati che mi piacciono tanto perché mi costringono a sentire i battiti del mio cuore. E quei battiti che avrei voluto sentissi quella sera, questo sabato sera, che nessun tuo come ti batte forte il cuore avrebbe potuto raccontare.

Sentirti parlare e sentirli parlare, sentirti ridere e sentirli ridere e mangiare insieme, e bere, e ridere ancora. E quella tua vicinanza, quel calore, le mani che si sfiorano appena. E si stringono.

Il cuore che batte, forte.

Penso a quella sera a Venezia, in cui siamo finiti con sconosciuti a ridere e bere. Penso che abbiamo questa cosa in comune, che riusciamo a legare immediatamente e con tutti, e che siamo adattabili a tante diverse sfumature di umanità. Quante probabilità esistono di trovare persone così?

Vedo le somiglianze anche se percepisco le differenze. Ma amo così tanto quelle somiglianze che alla fine le differenze non sono così importanti. La presenza colma la mancanza.

Penso che in queste righe non ho mai parlato esplicitamente di te, ma in molti sogni, in molti pensieri ci sei sempre stato. Quello scatto sbagliato, ma tanto bello. Penso a quanti scatti sbagliati sono stati prodotti da famosi fotografi. Mossi o fuori fuoco. Penso a Robert Capa.

E chissenefrega se sono scatti sbagliati. Sono meravigliosi perché sono vicini a un luogo pericoloso. Nessuno scatto in posa, solo di corsa a immortalare una scena brevissima, rischiosa. Dove nessuno può stare fermo.
Come in guerra ci muoviamo in un territorio minato e questo sabato siamo stati in territorio neutro, sgombro. In una situazione di normale quotidianità. In congedo dai nostri schemi mentali di ricerca di una (presunta) perfezione che non esiste.

Vorrei che tu potessi guardarti con i miei occhi di quella sera per poter capire.
Perché con tutte le parole messe a mia disposizione, io non credo sia possibile spiegare.


01 giugno 2018

No makeup: day #5 & #6

Io invece ti propongo una cosa
La prossima settimana aggiungi solo un trucco
Poi la settimana dopo un altro

Mi uccidi così
Troviamo un punto d'incontro
Se lo scopo è abbassare la mia autostima già sotto le scarpe, ci stai riuscendo bene eh
Non è colpa mia se sei circondata da rincoglioniti la cui massima aspirazione è tornare a casa la sera per mettersi le ciabatte nuove prese alla rinascente pagate 150 euro e mettersi a guardare uomini e donne.
Eh magari fosse come tu dici
Il mio intento era farti capire che stai bene senza trucco. Però per fare sta roba bisogna procedere per gradi, quindi per questo ti proponevo di aggiungere un solo trucco. Scoprire in che modo puoi sentirti bene senza necessariamente coprirti.
Nessuno dica che non ci ho provato, ma da domani riprenderò ad abbellirmi il visino. Questa settimana mi sono sorbita ogni cosa. Dal blando "Ma perché non ti trucchi più?" al "Miodio che faccia sbattuta" passando per "Ma poi riprendi a truccarti, vero?".
Non siamo abituate a non truccarci, e i maschietti sono abituati a vederci colorate. In un mondo che gira un po' al contrario (in molte specie animali sono i maschi ad abbellirsi per conquistare la femmina, ma anche in molte tribù selvagge) ci sentiamo anche merce da mettere in mostra. Un po' per noi stesse, i canoni estetici li subiamo anche noi, e un po' per seduzione.
Nel mio caso (anche) per tamponare la mia infinita insicurezza.

Devo ammettere che è stato comodo potersi strofinare gli occhi, potersi preparare al mattino in meno tempo, potersi anche grattare la guancia senza levarsi strati di fondotinta e sembra una sorta di zebra rosata.

Ma il gioco non vale la candela. Il mio stato esteriore riflette il mio stato interiore. E vedermi così ha provocato un rimando non piacevole.

Che ognuno stia bene come si sente, senza doversi coprire o scoprire, truccare o smacchiare. Che si possano indossare jeans o gonne, corte e lunghe, che ci si possa pettinare o spettinare alla meno peggio, che ognuno si senta bella o bello come meglio crede.
Io, che sto facendo un grosso lavoro di riqualifica esteriore (perché dentro sono già bellissima, me l'ha detto il radiologo - bhe, schiena a parte - ah ah ah), in questa settimana ho subito un regresso che volevo provare ma ripeto non ne è valsa la pena.
Sì alla riduzione, in caso di fretta o di viaggi dall'altra parte del mondo. Evviva per le fortunate che sventolano la propria bellezza acqua e sapone (che, a meno di non avere viso perfetto ed età intorno ai 20 anni, è frutto di un makeup ad hoc più lungo e accurato del mio) ma per chi si deve arrangiare e non è proprio miss Italia che faccia un po' come gli pare, ecco.

Mi piacerebbe pensare, e una parte di me è molto arrabbiata con me stessa per quanto sto per scrivere, che il mondo sia un posto dove le persone si incrociano per interessi più che per prime impressioni o che, meglio, le prime impressioni estetiche non siano così impattanti da impedire o permettere futuri incontri e chiacchiere. Ma non è così. Per lo meno per me non è mai stato così.
Forse lo potrebbe essere ma ho speso troppo tempo a cercare di schivare i colpi che arrivavano, lievi come palle da baseball dirette sul capo dal campione lanciatore di baseball, che ora non posso immaginare di fare altrimenti.
O almeno non basta una settimana senza trucco.
E, temo, nemmeno 1 anno di psicoterapia.




Ma domani, gita a Cömo. Ho bisogno.