16 giugno 2021

X

Ho finito da poco X, di Valentina Mira e ho avuto bisogno di un qualche giorno per digerirlo. 

Non è che si devono usare delle scorciatoie. Il libro parla di uno stupro, racconta di come questo l'abbia accompagnata in tutta la sua vita, la vita dell'autrice. E affronta il racconto attraverso delle lettere che scrive al fratello, sparito da casa poco dopo il fatto.

Racconta di fascismi, di violenza, e lo fa con la consapevolezza di non voler concedere sconti a nessuno.

Basita. F4, direbbero in Boris. Ci va coraggio.

E ci va tanto coraggio, tanto di più, perché non è uno stupro dove lei è finita quasi ammazzata a suon di botte, compiuto per strada di notte magari mentre rientrava da una serata, con una gonna inguinale che i più indicherebbero come responsabile della violenza. Eh no, lei era alticcia, e il responsabile uno con cui già aveva flirtato.

Se mai si finisce per sentirsi sbagliati a vita, è questo il momento. Quello in cui sai di aver subìto un torto enorme ma le persone a cui apri il tuo cuore minimizzano, sminuendo di fatto l'accaduto. E cominci a farti domande, non solo su ciò che è accaduto in sé, ma su diverse situazioni nella vita in cui pensavi di aver subito. Ma allora forse no. E se espandi il cerchio finisci a chiederti chi sei, chi sei mai stata, se sei mai esistita e via così, cominci a mettere in dubbio tutto, a mettere e a metterti in dubbio.

Io e la protagonista della storia abbiamo molte cose in comune. Intanto la voglia di essere anonime ma di distinguerci (lei si è rifatta il naso, andando a operare in maniera pesante sul suo aspetto, io mi tingo i capelli. Entrambe ci vestiamo come per nasconderci, per non dare modo a nessuno di giustificare comportamenti squallidi).

No, per fortuna non ho vissuto quel tipo di violenza: ma più avanti nel libro si scopre che (e noi donne lo sappiamo molto bene perché tutte, chi più, chi meno lo abbiamo subito) anche lei ha sperimentato altri tipi di violenze. Del libro non voglio parlare, se volete potete leggerlo, e ve lo consiglio. Forse la scrittura non è eccelsa ma qui non parliamo del suo stile ma del suo coraggio.

Oltre alla violenza le altre, piccoli soprusi di cui sei vittima ma ti rendi anche un po' carnefice. Che se non ci passi non capisci, che se non capisci che giudichi a fare? Essere donna è anche questo, subìre. Perché ricordo che a 16 anni non volevo mettermi la gonna perché la gente avrebbe fischiato per strada, o fissato, o salutato o "ciao bella", e in nessun luogo esiste un rifugio tranne sentirsi sicuri coi maglioni, con i jeans, rinunciare volentieri a quella parte di femminilità che mette a disagio e ripararti dagli sguardi altrui.

Ho in mente una cosa, tra le tante. E nel libro ci sono diverse analogie. Ho una grossa curiosità e nessuna qualifica. Dai 20 anni ai 30 ho giocato spesso con Linux, mi piaceva mettere su server a caso, avevo due, tre pc a casa e ci avevo messo diverse distro di Linux. Mi ero impuntata: volevo diventare sistemista. Così ho mandato curricula a raffica a tutte le aziende informatiche di Torino, avevo 24-25 anni, ottenni un paio di colloqui. Un'azienda mi fece anche un test, per loro (rarità) non erano importanti le qualifiche ma la passione. Avevano un loro consulente che faceva l'operaio, in precedenza. Uno dei migliori, sapeva tutto di sistemi. Feci il colloquio con il gatto aziendale in braccio. Mi piaceva tanto, mi avevano fatto un'ottima impressione. 

Il secondo colloquio fu diverso. 

Intanto a entrambi i colloqui ero vestita più o meno bene, io non amo vestirmi bene, ho fatto anche colloqui in leggins sotto al ginocchio e maglietta con disegno degli zombies. Comunque avevo una gonna lunga in velluto viola, degli stivali neri al ginocchio e un maglioncino bianco attillato a coste un po' scollato, che poi portando una prima, capirai che mai avrei potuto mostrare. 

Il secondo colloquio fu con uno che mi fece subito una brutta impressione. 

Aveva l'alito che puzzava di latte (gli piaceva prendere il cappuccino sempre, come poi scoprii), mi dava l'idea di essere sporco, con questa barba incolta (non di chi la vuole incolta, ma proprio da scappato di casa. E a me piace la barba). Mi disse che volevano organizzare dei corsi da tenere su Linux e che ne sarei stata docente, mi spiegò un po' di cose e poi interrompendosi a metà a un certo punto mi disse "Che begli occhi che hai!". Lo trovai immensamente fuori luogo e, come ogni donna in quelle situazioni, mi sentii inutilmente in colpa. E arrabbiata. Ero lì non per i complimenti, non era il momento e il luogo adatto. Mi sentii in imbarazzo. 

Quando lo raccontai mi sentii anche dire "Eh bhe? Che ha detto di male?". 

Mi propose subito di lavorare per lui, dovevo accettare così su due piedi, pensai che comunque era un'opportunità e accettai. Mi disse anche "Però mi raccomando, hai preso un impegno, non è che ci abbandoni eh?". Stupido senso del dovere. Qualche giorno dopo mi chiamò l'azienda del gatto per propormi un secondo colloquio, perché ero piaciuta. Niente, ormai ero già "sposata" a questo tizio che presto capii era un cazzaro e nessuna delle cose proposte si avverò mai. Nessun corso per me, fui tenuta parcheggiata finché dopo qualche mese non mi mandarono via, avevano ragione, non mi facevano fare nulla. E così per colpa sua (ma soprattutto mia) persi una buona occasione. Inutile dire che questo personaggio si rivelò più sudicio di quello che pensassi alla prima occhiata. Mi raccontava in continuazione delle persone con cui faceva sesso e come. Si riteneva un genio e non aveva problemi a esplicitarlo verbalmente. Non ci ha mai provato ma non mi sentivo sicura con lui. Quando restavamo fino a sera tardi da soli nel suo ufficio io guardavo sempre la porta, troppo distante dalla mia posizione. Mi portò una volta a presentare a Milano quelli che dovevano essere i corsi in partenza e che poi non partirono mai. "Ti puoi vestire come al colloquio, che eri vestita bene?". Niente, mi sentivo in trappola. Non cedetti però alla richiesta sull'outfit. 

Andammo a Milano insieme in macchina ma al ritorno a un certo punto gli dissi "Lasciami pure qui, prendo la metro e il treno". "Ma perché? Torniamo insieme". Presi la metro e tornai in treno con la scusa che dovevo fare delle commissioni a Milano e che poi sarei tornata tranquillamente in treno, che mi piaceva. 

Una volta mi raccontò di una 69 che fece con una tizia. Del sesso che faceva con la moglie da cui era separato. Lui e quell'alito di latte. Una volta per sbaglio (così disse) mi toccò il fianco e io, letteralmente, saltai. Forse dissi anche "Non mi devi toccare". Replicò dicendo che io pensavo che ci volessi provare ed ero troppo sull'attenti. Sono stata felice di andarmene, sono stati mesi che non mi hanno dato niente e mi hanno fatto capire (e non era la prima volta) quanto fosse difficile essere donna. 

Una volta mi mandarono in un back-office bancario a installare dei nuovi pc. Arrivai e mi presentai come il tecnico. Mi guardarono dall'alto in basso "Davvero?". 

È così, dobbiamo sempre dimostrare qualcosa, di essere forti, indipendenti, non bastano le nostre capacità. Ed è logorante, a lungo andare, mina e intacca continuamente l'autostima (di cui, guardacaso, io sono quasi totalmente priva). Essere continuamente valutate come un guscio vuoto, che si sia o non si sia belle per i canoni estetici continuamente accettati. Eppure ho passato una vita a essere presa in giro per il mio aspetto. 

Possibile che si debba sempre lottare, in questo mondo? 

Penso che faccia bene tirare fuori il marcio, soprattutto per liberarsi dalla sensazione sempre presente che si tratti di marcio tuo. Invece no, è una muffa che ti hanno attaccato e che cresce, è cresciuta, piano piano, fino quasi a dimenticarne i contorni. Di chi è la colpa? È mia? Sua? Sicuri? 

Serve a disegnare dei confini netti che dopo tanto tempo sono diventati sfumati Facendo una distinzione, una delle conseguenze peggiori è, per me, la reazione delle donne verso le donne stesse. Il giudizio sul guscio esterno che si fa sempre più pesante. Una volta ero a Lugano con C e incrocio due ragazze. Nemmeno le guardo perché sono impegnata a chiacchierare e in genere cammino sempre con lo sguardo basso (ho imparato sin da subito che non incrociare lo sguardo degli altri non da' alcun pretesto per attaccare bottone o fare qualsivoglia commento, che inferno) quando lui mi dice "Ma ti sei accorta?" - "No, di cosa?" - "Stavano ridendo di te". Avevo una felpa fatta a quadratoni colorati, tipo quelle che si vendono nelle bancarelle finto afro, con un cappuccio da elfo, lungo e a punta che dietro arrivava sotto al sedere, dei normalissimi jeans e degli stivaletti marroni. Mi giro e in effetti erano perfette. Tailleur con giacchino attillato, gambe scoperte, tacchi e uno sciarpino probabilmente chissà di quale marca costosa. 

Ecco cosa siamo diventate, anche noi. 

Sono estremamente sensibile alle critiche che gli altri fanno all'abbigliamento e all'aspetto altrui. Sono sempre stata magra ma se qualcuno si azzarda a dire "cicciona" a qualcuno scatto, come se (e un po' è così), quell'inutile offesa fosse fatta anche a me. Ma non solo a me, a tutti gli esseri umani del pianeta.

A 16 anni mi successero due cose che val la pena raccontare, proprio così, perché non si può sempre tacere, perché qualcuno capisca finalmente che certe cose sono profondamente sbagliate, che se qualcuno vi racconta una cosa del genere non dovete minimizzare, mai e poi mai dire "Eh ma tu allora, eh ma non avresti dovuto dire, fare, baciare, lettera o testamento", mai e poi mai anche solo pensare "Eh ma che ne sai tu di come stava soffrendo?", chi, cosa, ma quando?

Intanto ero in terapia, un fagottino sperduto senza capelli, con occhi giganti che attendevano solo la fine di quel piccolo inferno in cui, tuttavia, avevo trovato una mia strada, un mio modo, come a dire un piccolo ambiente in cui potevo essere utile a qualcuno, col mio sorriso, mi dicevano, illuminavo la stanza in cui entravo. Mi sentivo piccola e importante e mi facevo coraggio perché in mezzo a tutta quella sfortuna ero comunque molto fortunata. Io a 16 anni in mezzo a bambini che avevano meno della mia età e tutto avrebbero dovuto fare fuorché stare chiusi in una stanza d'ospedale per giorni e giorni, con fluidi velenosi che scorrevano nel loro corpo.

Avevo 16 anni, appunto e partecipai alla festa di Natale dell'associazione di volontariato dell'ospedale per dare una mano. M sentivo un po' sperduta, come alle peggiori festa in cui non conosci nessuno. Mi avvicinò un tizio, non so quanti anni avesse, ma sicuro almeno il doppio dei miei anni. "Vieni, montiamo i cavallini a dondolo di cartone". E così cominciammo. 

Devo dire a mia discolpa che ho più fiducia negli sconosciuti che nelle persone che conosco bene. Anzi direi che il mio cerchio della fiducia funziona al contrario. Più una persona mi è distante emotivamente e meno credo possa ferirmi, ma tendo a essere guardinga quando mi lascio andare perché se ci metto il cuore, vederlo poi calpestato per me è una cosa impensabile.

Mi disse di accompagnarlo col furgone a prendere delle bibite per la festa di natale. 

So cosa state pensando "Eh ma tu, non avresti dovuto dire, fare, baciare, lettera o testamento". No, leggete più su, vi prego. E ricordate che questo è il giudizio che le persone danno a una ragazza che ha messo una gonna secondo voi troppo corta e che è stata molestata. Ed è profondamente errato.

Si occupava di conosegne, forse, ma non ricordo. Devo dire che di quel giorno ricordo poche cose. Qualcosa sì. Non appena sul furgone e immediatamente dopo essere partiti mi ha raccontato della figlia di 3 anni con la leucemia o forse me lo disse mentre montavamo i cavallini, non so. Ma me lo disse.

Quasi subito dopo mi confessò di essere leghista, accese la radio su una frequenza "di parte" e cominciò a raccontarmi del suo membro e di come facesse sesso con la moglie. Anche anale, per lei non faceva differenza. Lui disse di sé di essere molto "dotato".

Guardai fuori dal finestrino, eravamo in una statale sperduta. Provavo a calcolare quanto mi sarei fatta male gettandomi fuori e rotolando via.

Andammo a prendere le bibite, mi raccontò che sapeva aprire i chrakra e che se avessi voluto sarei potuta andare a casa sua per provare. Mi diede anche il suo numero, poi andammo a prendere la moglie e la figlia che lasciò in ospedale. Ricordo che cercò di passeggiare con me tenendomi per mano ma gli dissi che mi sentivo a disagio, non riusciva a capire proprio come mai. Mi toccò il seno. Ma per fortuna non fece altro. Io, come Valentina Mira, in queste situazioni mi paralizzo. È una sensazione orribile, non riesci a muovere un muscolo, vorresti essere trasparente o per lo meno non provare più nulla.

La cosa morì lì ma fu strano, e se ci penso oggi assume contorni ancora più inquietanti per la situazione, il luogo, la modalità e sì, certo, anche la mia assoluta mancanza di giudizio. Ma prima tutto il resto.

Ma forse peggio di questo è stato l'altro avvenimento.

Immaginate sempre questo fagotto pelato ma questa volta ricoverato in ospedale. Chemio da più giorni e via. Una ragazza di 16 anni in un ospedale infantile si annoia, e anche parecchio. Le uniche persone adulte con cui puoi scambiare quattro chiacchiere sono le infermiere che però lavorano, i volontari che spesso sono troppo adulti, la tua famiglia e i genitori degli altri ragazzi ricoverati.

Feci amicizia con una ragazza di 14 anni in stato terminale. L. Lei costretta a letto, gonfia da cortisone, non parlava più emettendo solo dei gemiti quando provava dolore per la posizione in cui era costretta a letto e per evitare le piaghe l'amorevole padre, tra uno sbuffo e l'altro, le spostava cuscini, spostava lei, cercava di metterla a proprio agio. Pur innervosendosi spesso, il che provocava in lei pianti devastanti.

L. aveva una sua vecchia foto sul letto. Per vecchia intendo prima della terapia, ed era bellissima. Ora, sdraiata lì, era irriconoscibile. Le facevo spesso compagnia e le raccontavo delle cose. E la sera giocavo con suo padre, guardia giurata, a scala 40. Sono una frana a carte, perdevo sempre. L era in una posizione in cui poteva guardare le carte del padre, a volte le scappava da ridere e mi guardava come a dire "Sei fregata".

La comunicazione è una potenza, non ha davvero bisogno di parole.

Comunque una sera lui mi disse che avremmo potuto scommettere, senza dirci cosa c'era in palio però. "Ok, dai", già sapevo che avrei perso ma forse dentro di me pensavo a uno spettacolino per la figlia, a 5000 lire da mettere sul piatto.

Giocammo e persi. Inevitabile. Non ricordo se facemmo 3 partite o ne bastò una. Comunque persi e ripersi, nel caso.

Ok, gli chiesi allora che cosa mi toccasse pagare. "Non te lo posso dire". Come no, dai! Un debito di gioco si paga sempre.

Io, pelata, in pigiama, L dormiva, lui con più del doppio della mia età.

Dopo varie insistenze cedette: "Non volevo dirtelo perché ci tengo alla tua amicizia. La posta in palio è un bacio".

Vi ricordate cosa dissi poco più su? Paralizzata. Mi infilò una mano sotto il pigiama per accarezzarmi la schiena.

Non so quanto tempo passò ma per me fu lunghissimo, probabilmente nel mondo reale non passò nemmeno un minuto. Comunque dopo quel tempo che per me fu interminabile le mie gambe cominciarono a funzionare. "Devo andare", dissi e tornai nella mia stanza. Inutile dire che lo evitai, mia madre mi chiese come mai non passassi più da L e io adducevo scuse. Quando purtroppo mi capitò di incrociarlo, nella stanza di L (era inevitabile, lui era sempre lì mentre sua moglie con un altro loro figlio ricoverato in un altro reparto) usò la tecnica del senso di colpa. "Non vieni più a trovare L?". Lei mi guardò con occhi accusatori, io mi sentii malissimo. Per questa vicenda mi sentii dire un bellissimo "Eh ma tu non sai come ci si sente, magari stava solo soffrendo molto".

L morì poco dopo. È stato uno dei miei primi lutti, ed era un venerdì santo. Andai in ospedale a trovarla (i miei cicli comprendevano un ricovero per due settimane e poi tempo di recupero a casa) ma le infermiere mi dissero che non c'era più: "Ah è stata dimessa?" - "No, siediti".

In quel momento tutto quello che accadde passò in secondo piano ma spesso mi chiedo cosa possa passare nella mente di un uomo che attua queste modalità. Persone che dall'esterno sembrano normalissime, con un lavoro normale, una vita (bhe in questo caso forse nemmeno troppo) normale, con moglie e figli, ma che succede nella loro testa, cosa scatta affinché vadano a molestare una ragazzina in crescita già piena di problemi. E so, perché lo so, e non perché lo leggo dai giornali ma perché qualcuno si confida, mi racconta, cosa è successo una volta, forse due, di cose ben più gravi. E io vorrei che davvero saltasse fuori tutto il marcio, che questa muffa non cresca solo dentro, ma che venga portata fuori, che non ci si senta più inutilmente in colpa per cose non fatte. Che nessuno più debba dire "Eh ma non dovevi dire, fare, baciare, lettera o testamento". Che si comprenda quanto è grave tutto e quanto spesso accade e non ci rendiamo conto. 

Questa muffa deve lasciare lo spazio al bello, alla tranquillità di non sentirsi sbagliati, inadeguati.

Dobbiamo riscattare quella vita in cui queste cose sono accadute e dobbiamo liberarci.

Evacuare, liberarci, abbandonare quella ragazzina (o quella giovane donna che al colloquio si sentì dire "Che begli occhi che hai" - e non fu l'unico colloquio imbarazzante) e fare come Valentina Mira. Dare al mostro che non siamo noi, un nome, prenderlo a calci e proseguire dritto senza più voltarsi indietro.