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10 maggio 2021

Quel che succede al crepuscolo

Chiudo gli occhi.

Li riapro.

Nulla cambia, sono qui ma non so dove. È come se non ricordassi cosa stessi facendo qualche istante prima. Rettifico. Non ricordo assolutamente come sono finito qui. La seggiola di legno su cui le mie adorate chiappe posano è scomoda. L'amnesia che mi affligge è strana, nulla di ciò che ho intorno mi aiuta a ricordare. So chi sono, ma non ho assolutamente idea di che ci faccia qui, seduto, con il tavolino da campeggio, di fronte a questa giovane donna dai capelli corvini, in mezzo a questo prato.


D'istinto cerco lo smartphone, lui saprà dirmi che succede. Mi sarò annotato qualcosa, il GPS mi darà almeno qualche indicazione, magari negli ultimi messaggi ho scritto a qualcuno dove mi trovo, chi è questa tizia mezza dark che mi guarda con aria indagatoria. Ma la mia scatoletta tecnologica è kaput. Per la prima volta nella sua esistenza, scarica, non si accende.

Mai fidarsi troppo della tecnologia.

"Costa stavamo dicendo? Non ricordo a che punto eravamo"

Alza lo sguardo al cielo, scocciata. Gli occhi chiari e segnati da una vita non semplice, anche se ha l'aria di essere giovanissima.

"Sta a te" 

"Come prego?"

Solo in quel momento mi accorgo che sul tavolino che ci separa è poggiata una meravigliosa scacchiera in legno. Pezzi lavorati un po' grossolanamente ma belli. Quasi dotati di vita propria. C'è un vento leggero, dalle foglie cadute intuisco sia autunno.

Intuisco.

Ma non so dove siamo, non so chi è Lady Dark, non so nemmeno se so giocare a scacchi. Ho vaghi ricordi di quando ero piccolo e avevo una minuscola scacchiera da viaggio che si chiudeva piegandola a metà tramite piccole cerniere e i pezzi restavano chiusi all'interno di questo piccolo scrigno.

Avevo un foglio di carta plastificata con le istruzioni e grazie a quello ho imparato a muovere i pezzi, giocando da solo. Ma non ho mai imparato la strategia, negli scacchi, nei giochi in generale e nella vita. Gli altri mi hanno sempre battuto. Credulone e sognatore, quanto spreco di energie a sognare.


Mi toccano i bianchi. Gli occhi chiari della donna in nero mi fissano.

"Aspetta, te lo devo chiedere. Cosa ci facciamo qui?"

Il silenzio è così rumoroso da far male alle orecchie. Non si sente più il rumore del vento, né del nostro respiro, né il battito del mio cuore.

"In effetti ci giochiamo quello, i tuoi ricordi. Per ogni pezzo che mi mangerai, riaffiorerà un piccolo ricordo. Ma solo se arrivi alla fine, solo se fai scacco matto avrai modo di sapere esattamente perché sei qui".

La guardo, la cosa non mi diverte. Non so perché ma le credo. Se non fossi in questa strana situazione questa piccola Vedova Nera potrebbe anche piacermi. Quello sguardo sofferente, l'aria di chi non dorme da secoli, i capelli scuri e la pelle, ma soprattutto quegli occhi. Occhi di chi ha visto troppo, nella vita, per poter soprassedere. 

Ha le labbra screpolate, le unghie mangiate, la sofferenza la corrode dentro.

"E se vinci tu, se mangi i miei pezzi cosa accade?"

"Nulla, io lo faccio per divertirmi"

Non me la dai a bere strana e misteriosa fanciulla, nessuno fa niente per niente. Me lo hanno ripetuto così tante volte che alla fine l'ho fatta mia, questa frase. Qualsiasi cosa la si fa per un ritorno, anche solo emotivo. Forse la tua ricompensa sarà lo smacco di avermi battuto?

"Cavallo in f3. AFFONDATO!". Ridacchio da solo, più per quella strana ansia che mi ha rapito, che per la stupida battuta in sé. 

Anche lei muove il cavallo. Osservo il mio dirimpettaio scuro. Strategia. Strategia. Ripetere all'infinito una parola affinché perda di significato. Strategia. Strategia.

Pedone in c4.

Devo mangiare un pezzo. Devo capire qualcosa. È peggio di fare scena muta a un'interrogazione.

Nero in c5. Dirimpettaio anche lui. Costruisco una scena mentale in cui il colore dei pezzi degli scacchi non esiste. Nessuno deve battere nessuno. I pezzi sono tutti beige, o grigi, i cavalli saltellano a L su scacchiere senza caselle, piani infiniti in cui...

"Sta a te"

Ok, rettifico: potrebbe non piacermi. Detesto chi mi interrompe, ma soprattutto chi interrompe i miei pensieri. Cavallo in c3. I miei due cavalli sono ora schierati. Ma mi distraggo mentre anche lei muove un cavallo. La cosa immensamente strana è che ora procedo quasi per automatismi. Non è vero che non so giocare. Non è vero che sono un credulone.

Ma allora chi sono?

Nel mentre il suo pedone mangia uno dei miei. Cattivo da parte sua mentre ero assorto nei miei pensieri cercando di ricordare.

Cavallo bianco mangia pedone nero.

Sin da piccolo viaggiavo in treno, adoravo viaggiare in treno. Ed ecco i miei scacchi da viaggio. Giocavo in modo ossessivo da solo per imparare le mosse dei pezzi. Giocavo per ore da solo perché non avevo amici, non ne volevo. Rifiutava la compagnia degli altri, stupide bestie insulse che inquinavano i miei spazi. Il mio silenzio.

Mi chiedo come sarei stato, che vita avrei vissuto se fossi stato un animale sociale. O per lo meno, poco più sociale. Ma il filo dei miei ricordi è appannato dal suo pedone che si muove. E allora sono famelico di ricordi. 

Devo

Capire

Cosa

Sta

Accadendo.

In un paio di mosse le faccio fuori un cavallo. È un pezzo importante, voglio un ricordo importante.

La mia prima fidanzata. Non mi piaceva molto ma non volevo nulla che mi distraesse da me stesso, la mia vita, le mie passioni, le mie letture. Lei era così grata che io l'avessi scelta da non pretendere null'altro. Aveva 17 anni, i segni dell'acne sulla pelle del viso, l'apparecchio ai denti. Si chiamava... non lo so. Ma io la chiamavo topolina. La chiamavo così perché mi ricordava un ratto di fogna, non aveva un buon odore. Ma topolina evocava qualcosa di tenero (anche se nella mia testa sempre di ratto si trattava). La trattavo male e bene. Esplodevo di rabbia davanti a lei, anche se non mi interessava molto, ma con la scusa potevo dirle che se mi arrabbiavo tanto era perché a lei tenevo. Lei soffriva ma mi era grata. Poi le portavo un regalo.

Anche nei topi succede una cosa simile. Scossa e cibo, cibo e scossa. I topi non capiscono più un cazzo. Lo stress quasi li uccide. 

Tra sfuriate e regali lei diventò totalmente succube. Così tanto da continuare a essermi grata anche quando mi facevo le sue amiche. Non importava perché io stavo ufficialmente con lei. Mi era grata delle sfuriate, dei tradimenti e dei regali. 

Finché non ha retto la mia partenza. Fino ad allora, modellando la vita degli altri sulla mia piccola esperienza, non avrei mai pensato che una persona potesse far crollare un'altra persona. Non c'è niente che potrebbe buttarmi giù a tal punto. Eppure lei crollò. Non ne seppi più nulla fino a qualche anno dopo. Mi dissero che era dimagrita a tal punto che ormai il corpo divorava se stesso. Stranamente non mi sentii in colpa, ma in parte lusingato.

Cavallo nero mangia pedone bianco. Pedone bianco mangia cavallo nero.

Avevo 25 anni. Uno sfigato che riusciva in una cosa sola, imbonire gli altri. Grazie alla mia parlantina avevo il lavoro che volevo, mai pagato abbastanza secondo i miei canoni, ma sufficiente per sopravvivere abbastanza bene. Ero diventato così bravo e così prossimo alla promozione che potevo sentire l'odore dei soldi ogni volta che entravo in ufficio. Purtroppo la promozione, da voci certe, sarebbe stata offerta al mio collega più pacato. Fui costretto a farlo, a rifilargli una pratica scomoda, a fargli fare una mossa falsa abbastanza grave da impedirgli di prendermi il posto.

Mi guardavo allo specchio e mi sentivo un Dio. Altro che imbonitore, ero un cazzo di mago, piegavo tutti al mio volere senza bisogno di ipnotizzarli. Lui venne demansionato e io avevo già una piccola squadra di schiavi al mio servizio.

Mi fermo, comincia a non piacermi questa storia.

Alfiere nero mangia cavallo bianco.

"Sta a te" sorride, la stronza. Sa cosa sta accadendo, sa che non voglio continuare.

"Sai già che non porterò avanti questa partita. Non sono così, sei tu che stai armeggiando col mio cervello. Io non sono questo. Non so come stai facendo ma non riuscirai a farmi andare fuori di testa"

Sorride. Però ha fascino, cazzo, bisogna ammetterlo.

Torre bianca mangia alfiere nero.

La mia convivente. Già, convivevo. Sua mamma, terminale. E io, in giro a spassarmela. Soffriva tantissimo, ma non volevo entrare in quel vortice nero. Così mi ero inventato una serie di lavori fuori. Praticamente non ero mai presente. E più lontano andavo, meno sentivo quella pesantezza. Come se la distanza fisica attenuasse il dolore. Come se il dolore avesse una portata. Una gittata di veleno con un certo raggio, ma più vai lontano, meno arrivano gli schizzi.

Quando sua madre se n'è andata, io avevo spento il telefono perché non ero solo. Non spengo mai il telefono, lei lo sapeva bene. Vivevo con quell'arnese attaccato alle mie chiappe, in completa simbiosi con la mia persona. Non stavo 10 minuti senza guardarlo. Tranne quando ero via, allora potevano passare ore senza che rispondessi ai suoi messaggi.

Quando sono tornato lei non c'era. Non c'erano più le sue cose. Non so come dire, non c'era nemmeno più il suo odore. Come se non fosse mai esistita. Non l'ho mai chiamata, non l'ho mai più sentita. Sono entrato a casa, ho trovato una busta con una lettera scritta da lei. L'ho buttata nella raccolta differenziata della carta senza nemmeno aprirla, mi sono aperto una birra, mi sono sdraiato sul divano e ho acceso la TV.

"Nemmeno i cattivi dei supereroi vengono descritti come tu dipingi me"

"Devo dire che sei stato abbastanza bravo a fare tutto da solo"

È compiaciuta dal mio modo di comportarmi.

"Tocca a te" le dico "o, come ti piace, sta a te"

Torre nera mangia torre bianca.

Sorride e si mangia le unghie. Mi legge dentro. Dev'essere un sogno. Per forza.

Un sogno strano, magari sono i miei sogni abituali. Magari non lo ricordo

Alfiere bianco mangia torre nera.

La vidi in mezzo a un mare di donne. Stupenda, sicura di sé, ben al di sopra di ogni mia possibilità. Di solito cercavo una donna fissa come porto sicuro dalle mie scappatelle e per non sentirmi solo come un cane quando varcavo la soglia di casa. Una sorta di comoda copertura. Sembra antiquato, ma mi piaceva l'idea di una donna che accudisse il focolare mentre io, bhe, mi occupavo di altre cose. Ma lei aveva acceso qualcosa in me. L'avevo sentita parlare. Sexy. Intelligente. Eppure nessuno sembrava interessato a lei, questo mi diede modo di farmi avanti. Non mi respinse.

Sentivo che poteva essere quella giusta, il mio istinto era vigile e qualcosa dal profondo mi diceva di stare attento. Lei, sì proprio lei, era troppo simile a me. Bruciava di un amore per la vita che non era distruttivo come il mio, ma comunque poteva far male. Penso che fu proprio l'amore che aveva per la vita che mi portò a innamorarmi di lei. Amava se stessa e amava la vita. Solo chi ama queste due cose può permettersi il lusso di amare anche qualcun altro. Io, fino ad allora, amavo solo me stesso. Lei però mi fece apprezzare le piccole cose e il lavoro era diventato, per me, quella cosa che mi teneva distante da lei. Per la prima volta in vita mia non restavo un secondo di più del necessario in ufficio perché non vedevo l'ora di tornare. Mi spiegava con cura ogni cosa che la appassionava. Ed erano tante cose. Il poco tempo libero che la vita ci donava lo passavamo condividendo passioni. Riuscì a regalarmi i momenti più belli della mia vita.

Ma si sa, la vita è parecchio stronza.

Pedone nero mangia pedone bianco.

Torre bianca in scacco al re nero.

Sorride.

"Va bene, abbiamo accelerato. Forse, chissà, ti ho lasciato vincere. Mi piace quando arrivate qui con quegli occhioni da cuccioli impauriti ma siete i soliti bastardi. Per cosa lo hai fatto? Far sentire in colpa qualcuno? Manie di protagonismo? Il pensiero di qualcuno che può piangerti? Siete patetici."

"Devi dirmi chi sono. Devi dirmi che ci faccio qui. Devi darmi questo ricordo"

"Sei carino. Fai finta di non essere il pezzo di merda che sei. Sei anche un bravo attore, quasi potrei cascarci" intreccia le dita delle mani e vi poggia il viso.

"Proprio carino. Lo dico sempre, cuccioloni dagli occhi impauriti. Non chiedo niente alle partite perché mi diverte da matti scoprire le vostre espressioni quando ricordate chi siete davvero. Come se non aveste avuto scelta. Eppure avete avuto le stesse opportunità di tutti"

"I patti sono patti. Ho vinto. Devo sapere chi sono, e come sono arrivato qui. Chi sei tu?"

"Mettiamola così. Sono chi ti ha trovato. Chi ti ha permesso di essere qui. Forse sono anche un po' chi ti ci ha mandato. Ricordi la donna che tanto hai amato? Non ti somigliava soltanto, era un tuo preciso clone. È stato bellissimo vederti col cuore a pezzi dopo averlo devastato ad altri. Oh se ho riso. Proprio divertente. Qualcuno di voi lo chiama karma. Mi fate sbellicare anche per quello, voler dare un nome a ogni cosa; come se ciò che non ha un nome non esista. E tu poi? Dopo che hai scoperto che la donna che amava tanto la vita amava tantissimo anche altre persone oltre te, o forse proprio nessuno? Quelle gocce? Con l'alcol? Dai, esilarante. Nemmeno ti sei informato bene. Te lo dico io com'è andata.

Tu hai scoperto ciò che hai scoperto, banale, e ti sei ricordato di quelle gocce per dormire. Erano anche scadute quindi non avevano una copertura totale, ma ciò che conta di più di tutta questa messinscena è che nemmeno ti sei informato sulle dosi. Hai quella scatola magica da cui puoi estrapolare ogni informazione in pochissimi secondi ma no. Hai deciso di non farlo. Hai deciso di fare l'uomo dramma. Hai deciso di prenderne a caso, di mescolarle con il Whiskey migliore che avevi a casa e di farti trovare con la bava alla bocca. Ma qui viene la parte divertente. Quando lei ti ha trovato, ormai già privo di conoscenza, ha aspettato a chiamare i soccorsi. Aveva sentito che eri ancora vivo ma che ti stavo già tenendo per mano. Così ha pensato bene di aspettare"

Stava ridendo così forte che le lacrimavano gli occhi.

"È un vero peccato che sia finito tutto così presto, adoro questi melodrammi da b-movie. Peccato che all'ultimo lei abbia deciso comunque di chiamare i soccorsi. Non voleva rischiare che aprissero un'indagine. Ed eccoti qua"

Mi mancava il respiro anche se sapevo che probabilmente un vero respiro non c'era più. Il silenzio, la Dark Lady, la nera signora, i ricordi, la partita a scacchi. Un classico.

"Di solito alla vittoria corrisponde una sorta di seconda opportunità. Che senso ha portarmi qui e poi non permettermi di tornare?"

"Ah quello? No, hai visto davvero troppi troppi film. Mi annoio molto, e mi diverte da matti centellinare i ricordi di quello schifo che siete. Per ora mi toccate voi stronzi, ma spero presto in una promozione. Forse sarà più noioso ma almeno non mi tocca sentire le vostre insulse vite. Persino io ho una morale"

Sì alzò e se ne andò fino a quando sparì dalla mia vista.

Seduto lì immobile non sapevo cosa fare, non capivo ancora dove fossi. Sono morto? Sono in coma? Sono in uno strano limbo? Di sicuro avrei avuto tempo per pensare. Sarebbe stato un bene? Avrei dovuto incamminarmi nella sua direzione? Seguirla?

Guardo la scacchiera sfatta. Recupero i pezzi e li metto in ordine.

Forse avrò modo di fare un'altra partita. Forse verrà fuori qualche altro ricordo di me. Forse avrò speranza di redimermi.

Forse presto morirò.

16 marzo 2020

L'ultima storia

"Mamma, mamma, mi racconti ancora di quando tu e papà vi siete conosciuti?"

"Ancora? Ma non ti sarai stufata?"

"No dai, ancora una volta, l'ultima."

"E va bene, dai. Era l'anno 2019, gli inverni stavano diventando sempre più caldi e già si respirava un clima da panico per emergenza globale. C'erano tanti attivisti in giro per le strade d'Italia a manifestare. E una ragazzina dall'impermeabile giallo..."

"Greta Thunberg?"

"... sì, lei. Aveva risvegliato una sorta di coscienza globale, i ragazzini finalmente avevano voglia di unirsi per qualcosa di più importante delle occupazioni a scuola per le serrature nei bagni che mancavano, come accadeva quando ero piccina io.
Era, in parte, bello. Sembrava ci si sentisse parte di qualcosa di importante.

Io e papà ci siamo conosciuti prima di quel momento, ma ci siamo avvicinati proprio in qelle giornate, tra le mani che si stringevano nelle manifestazioni, anche se non fisicamente lì, sempre vicini.
All'inizio non è stato facile, tuo padre è una capatosta, come avrebbe detto il nonno, ma alla fine abbiamo trovato una quadra."

"Capatosta?"

"Sì, testardo, cocciuto, ma ci siamo innamorati anche per questo. Diversi e vicini.
Il 2019 è stato un anno bello, considerato l'anno precedente: sembrava di riuscire a respirare un po'. E poi è arrivato il 2020."

"Questa è la parte che preferisco!"

 "Perché ti ricorda tanti quei vecchi film horror che guardiamo insieme. Il casino è scoppiato in un luogo molto molto lontano da qui, a fine dicembre del 2019. Molta gente cominciava a stare male ma non si capivà perché. Facevano fatica a respirare e presto hanno trovato la causa."

"Un virus!"

"Sì, un virus, che sembrava non cattivissimo, o forse le notizie arrivate qui non erano preoccupanti. Tant'è che abbiamo continuato a viaggiare, uscire, fare la nostra vita."

"E poi?"

"E poi, come tutti gli ospiti indesiderati o inattesi, è arrivato. Portato dagli aerei, dai turisti, dai treni, e presto eravamo circondati. Ma sottovalutavamo ancora il problema. Mamma ad esempio andava a fare aperitivi con le amiche, brindando con la birra Corona. Che per noi era una semplice influenza, così pensavamo. Poi l'esplosione."

"Come una bomba?"

"Più o meno, ma senza rumore. Si era scoperta l'alta infettività, qualcuno diceva che una volta preso, ci si poteva reinfettare. Così nessuno ha cominciato a sentirsi al sicuro. La nostra nazione è stata chiusa, prima un paio di regioni, poi tutta l'Italia. I voli sospesi. La vita come la conoscevamo è stata modificata. In quel frangente io mi trovavo con papà e lì sono rimasta, muovermi sarebbe stato complicato. Non potevo tornare a casa perché la Nonna aveva un'età a rischio. Le persone non potevano uscire e facevano piccoli concertini dal balcone, soprattutto nelle grosse città. Io e papà in quel paesino stavamo insieme e continuavamo a fare tante cose in attesa che la situazione si sbloccasse. E da lì non ci siamo più separati."

"E poi sono arrivata io."

"Sì, tutto era rimasto sospeso, alla fine le persone si sono stancate. Il disordine sociale ha avuto la meglio, per un po' ha regnato l'anarchia, qualcuno è uscito nonostante gli avvertimenti, qualcuno è rimasto chiuso in casa un po' per paura del virus e un po' per la violenza dilagante. Gli stati che sono partiti con l'isolamento e la quarantena dopo di noi hanno portato altri infetti e così via. Ci avevano sconsigliato di avere un figlio in quel momento così delicato e avevamo tanti dubbi anche noi, ma c'era pressione da parte dello stato per avere figli, perché stavamo diventando pochi, poi sai, sei una bambina speciale."

"Perché io sono immune."

"Già, perché tu sei immune a quel virus e quindi devono capire come puoi aiutare gli altri"

"Per quello sono qui, per aiutare tutti."

"Per quello sei qui"

Tolse il dito dal citofono perché cominciava a farle male. Tanto lei stava già dormendo, poteva vedere attraverso il vetro che li divideva il petto alzarsi e abbassarsi in modo regolare. La tuta con respiratore a cui era attaccata le cadeva pesante addosso e non vedeva l'ora di togliersela.
"Non sospetta nulla?"
"Sembra di no, crede sempre che io sia la madre"
"È dolce che le racconti la nostra storia, potrebbe darle un po' di speranza. La rende coraggiosa."
"È ingiusto, non etico, e lo sai."
"Il mondo ha pochissime speranze di tornare com'era, non abbiamo altra scelta"

Lungo quel corridoio, ogni giorno più lungo, le finestre mostravano un luogo diverso rispetto a qualche anno prima. Gli alberi non più potati e i rampicanti avevano preso possesso di ogni palo, ogni muro, ogni auto, ogni oggetto.

"Domani tocca a te il racconto del pisolino post prelievo. Ah, e ci serve ovviamente un nuovo campione di sangue"
Segnò una nota sul calendario:  Ratto 00842 non reagisce agli stimoli immunitari. Soppresso.

Era il 20 maggio 2040.

27 gennaio 2020

Il posto dietro

Dovresti stare tra le mie braccia.

Quando ero piccina, il risultato di uno stupido test sentenziò:
Che cazzo ci stai a fare dietro le quinte a vedere scorrere la tua vita? Sii il protagonista della tua vita. Cazzo.
Non sono certa dell'esattezza delle parole ma più o meno il significato era quello.
E mi rivedo oggi a 38 anni (ehi, oggi me ne hanno dati 30, 5 in più rispetto a qualche anno fa ma sono quasi 10 anni in meno, f*ck) pensando al risultato di quello stupido test.
Mi immagino dietro le quinte in attesa di entrare in scena e di recitare un copione che, finora, ho soltanto seguito, osservando stupide comparse dai capelli colorati susseguirsi al mio posto.
Nella mia docile indole mi sono adagiata, lasciando che caterpillar di vario spessore gravassero su di me, senza muovermi, immobile. Remissiva.

Sono in Umbria, una terra che non conosco, un clima che non conosco, con persone che ho appena conosciuto, adagiata sul sedile posteriore di un'auto mentre il conducente e il passeggero accanto a lui chiacchierano del più e del meno.
Mi piace il posto dietro, mi permette di non dover sottostare alla regola della conversazione forzata (non ho molto da dire, e quando parlo non dico in realtà nulla) e di guardare fuori dal finestrino. Adoro guardare fuori dal finestrino mentre viaggio.
Le persone sembrano imbarazzate dal silenzio e cercano di riempirlo in ogni modo.

Vuoi ascoltare della musica o preferisci il silenzio?
Il silenzio, grazie.

E io mi sento in imbarazzo a percepire l'imbarazzo, in un circolo vizioso che si interrompe con la chiacchiera di circostanza.
Dicono che domani farà bello.

Del resto, con gli anni ho imparato a stare bene anche in mezzo alle persone e a chiacchierare non solo del tempo. Si è trattato di sopravvivenza. Certo, piuttosto che fare l'ascensore con qualcun altro mi faccio 10 piani a piedi Ma non hai detto che odi l'attività fisica? - Sì ma sono a corto di endorfine, ciao.
Dal non proferire parola coi colleghi che nulla sapevano di me se non il mio nome al, persino, intrattenerli con giocose battute e bevute di tutto rispetto.
Lo sai chi ti saluta? Stocazzo.

Il sedile dietro offre spunti di riflessione degni di nota, ma anche visioni magnifiche.
Il buio, la notte, il gelo. Anche l'asfalto sbuffa dal freddo, e la terra crea quella nebbiolina bassa da film horror, lieve.

Penso al titolo per un horror ambientato in queste terre, come Un lupo mannaro scheggino e pascelupano a Buotano, o Le streghe di Norcia. O un fantasy intitolato Cronache di Narni.

I fari illuminano chilometri di niente fino a quando, in una curva, una macchia bianca attira la mia attenzione.
Ci siamo, penso, finalmente un fantasma. Potrò vivere di rendita, come ospite a inutili trasmissioni pomeridiane della mediasettitudine, dove grasse signore si fanno dare consigli ovvi Dovrebbe mangiare un po' meno, e ragazzine brufolose di 12 anni piangono l'amore perduto Non amerò mai più così.

E io: Ho visto un fantasma
Signora (ormai sono signora anche nella mia immaginazione), com'era fatto?
Mha, una macchia bianca, in una stradina tra le campagne umbre.
E le ha detto qualcosa?
Sì, lo sai chi ti saluta? Stocazzo.

Quando l'auto curva e la macchia bianca è posizionata proprio davanti ai miei occhi (dovrò dare quanti più dettagli possibili quando me lo chiederanno) mi accorgo che in realtà si tratta di una bestia immensa, bianca, con le corna. È una vacca, probabilmente chianina.

Le storie che si possono raccontare su una vacca, in strada, nel nulla, di notte, al gelo sono infinite.

Ma la prima, primissima cosa a cui ho pensato è stata Dioniso. Uno degli animali a lui sacro e in cui si era trasformato, era il toro.

E a guardare, in quell'attimo, quella macchia bianca tramutatasi in un toro, o vacca, ho pensato a una trasmutazione voluta.

Così, mio caro Dioniso, da quale baccanale sei fuggito per trovarti in quella strada buia e fredda?

Sai, ho visto una vacca bianca.
Ma dove?
Per strada
Ah sì? Non l'ho vista.
Eh, sì, eri sul sedile davanti.

08 luglio 2019

Il prezzo della felicità

Sai cosa mi impensierisce, cosa mi fa pensare?
Che non lo nomini mai.
E' come se temessi.
Di rompere qualcosa.
Questo mi impensierisce.

"Documenti prego"
Si guardarono come se fosse stato nell'aria. Lo percepisci quando c'è qualcosa che non va.
Lei sospirò piano, come a farsi coraggio. Durerà poco vedrai, non perderai il treno, siamo partiti con tanto anticipo.
La poliziotta che lo accompagnava aveva gli occhi chiari e un trucco semplice.
"Anche il libretto della macchina"
Glieli sporse.
"Arrivo subito"
La poliziotta invece restò lì.
"Può abbassare i finestrini dietro?"
Lei percepì il nervosismo di Lui, gli tremava la mano più del solito.
"Meno male siamo partiti prima"
"Già" disse Lui.

Il poliziotto tornò con i documenti in mano. "Seguitemi"
Lei lo guardò.
Sono controlli di routine, fatti randomicamente. Eppure ci si sente sempre come se si fosse in difetto.
"Portate cellulari e zaini".
Lei ridacchiò pensando a un'avventura peggiore in Australia, quando le lessero i diritti e temette di non tornare più a casa. Ma quella è un'altra storia.
"Poggiate gli zaini sul tavolo, sedetevi laggiù" indicando una panca bianca. Bianca come le pareti, bianca come il tavolo di quel minuscolo stanzino.
La poliziotta si infilò i guanti monouso blu.
"Facciamo un piccolo test stupefacenti" il poliziotto ruppe il silenzio.
"Fate uso di stupefacenti?"
"No" esclamò sicuro Lui. "Ma ha visto dove lavoro?"
"Sì"
Quando a Lei toccava scegliere cosa mangiare, o che meta scegliere in un viaggio, poteva metterci diversi minuti prima di intraprendere una strada. Ma quando si trattava di scegliere in fretta, sapeva benissimo cosa dire. Era come se i pensieri prendessero un circuito cerebrale più breve.
"No" disse lei dubbiosa.
In un nanosecondo si chiese se fosse stato meglio dire la verità o mentire e con quale grado di sicurezza affermarlo. Aveva già una scusa in caso di test positivo, probabilmente poco plausibile, ma forse loro non se ne sarebbero accorti.
"Mi dia le mani"
Lui porse le mani, lei fece altrettanto. Ma con quell'anticipo a dichiarar quasi la sua colpevolezza.
"Signora, lei dopo".
Aprì una confezione monouso con un tampone e lo passò sulle mani di Lui.
Lei cominciò a sudare.
Quando toccò a Lei pensò, ecco, ci siamo. Ci fermeranno per altri test, perderò il treno, mi dirà qualcosa che non voglio sentire, lo incasinerò col lavoro, non vorrà più parlarmi.
Mentre la poliziotta frugava tra la sua roba, Lei cominciò a sudare.
Il poliziotto uscì, come a controllare un test dubbio.
Lei sudava.
"Sono negativi".
La poliziotta cercò di sistemarle lo zaino "No faccio io, le cose sono in un ordine, io, bhe. Non ci entrano dopo".
Ultimo controllo alla macchina.
Non erano in molti a passare il varco spaziotempo che divideva questa dimensione con quell'altra, di cui non era dato sapere nulla.
Il treno interdimensionale sarebbe stata l'unica occasione di fuggire da quel mondo malato, in cui il parassitismo dell'uomo lo aveva reso quasi del tutto arido e sterile.

La poliziotta schiacciò un pulsante e aprì un cancello in cui un vortice nero li chiamava nell'oscurità totale.
Lui la baciò "Non posso venire con te ora, ti raggiungerò quanto prima. Devo ancora concludere qualcosa al lavoro, qualcosa di molto importante".
Se quel test si fosse rivelato positivo, se qualcosa fosse andato storto, sarebbero stati condannati entrambi a restare lì. Ripeto, non erano in molti a passare.

Lo guardò a lungo prima di essere risucchiata via dal vortice nero. E poi, com'era venuto, scomparve.

Lui lanciò uno sguardo di disapprovazione ai poliziotti, lo mascherò un po'. Non voleva avere grane. Mancava poco anche per lui e presto si sarebbero riuniti.

Scomparve nella notte, in quella strada che chissà dove lo avrebbe portato.

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"Ehi, questo è il test...?"
"Sì". La guardò.
"Ma è positivo"
"Lo so ma mi sembrava abbastanza disperata. Abbiamo tutti una ragione per avere paura, per essere disperati. Non me la sono sentita di procedere. Non ricapiterà, dall'altra parte"
Lo squadrò con i suoi giovani occhi azzurri. Dietro quella divisa informe si sentiva affascinante e piena di potere, ma così piccola di fronte a quella scelta. Lei avrebbe eseguito gli ordini.
"Dai, bruciamo i test. Tra 15 minuti ci sarà una nuova partenza, dobbiamo essere pronti".


In un luogo lontano, in una galassia lontanissima, pare ci sia una fanciulla dall'aspetto mansueto e lo sguardo languido che attende una nuova vita.
La scelta apparentemente insignificante di un omino in divisa azzurra ha permesso un nuovo scenario, un nuovo futuro.
Un nuovo tutto.

In un luogo molto vicino, qualcuno sta lavorando per rendere possibile tutto questo.
Non dimentichiamolo.


Canzone del giorno: Addicted To Chaos Megadeth

01 luglio 2019

Si scopre poco a poco

E tu? Tu cosa fai?
Io uccido i miei sogni.

Non guardarmi, gli dico.
La stanza è buia, ma la poca luce dei lampioni in strada che penetra dalle tapparelle abbassate può fargli intuire le mie forme, i miei movimenti.
Ho gli occhi chiusi.

Mi trovo nell'ultimo presidio medico della zona, probabilmente dell'intera città.
I miei occhi si abituano alla poca luce e l'infermiere del triage ha davvero le palpebre chiuse.
Che cosa ha che non va?
Il tono è grave, non siamo rimasti più in molti.
Che domande, penso. Niente va.

Nel giro di una settimana l'inferno ci ha investiti prima del tempo. Prima quella luce, accecante, e quel boato.
Mi ha fatto fischiare le orecchie per diverse ore.

La sala d'attesa è vuota.
Questo posto sembra disabitato da secoli.

L'infermiere apre gli occhi.
Mi guarda.
Lo noto, si trattiene, ma un lieve sussulto è visibile.
Ok, capisco.
Non ha la mano destra. D'improvviso penso a quante cose dovrei imparare a fare con la mano per me sfigata, la sinistra, nel caso perdessi la mano destra. Forse mi sarebbe più facile usare i piedi.
Uh ricordo quel film, Il mio piede sinistro. Lo avrò visto tante volte da piccola, credo di aver letto anche il libro. Sì, certo, ho letto anche il libro.

Mi segua.

Che poi pure sinistro il piede. Cioè doppia difficoltà per me. Piede e sinistro.
Che poi sinistro vuol dire anche sinistro, pauroso.

Sinistro vuol dire sinistro.

Comincio davvero a delirare.

La luce manca da quel giorno, e così quando apre la porta che dà sul corridoio è costretto ad accendere una torcia, una di quelle scarsissime a led e a manovella ma... meglio di niente. Da qui in poi non ci sono più finestre.
Lo immagino mentre col moncherino tiene ferma la torcia sulla scrivania e con la mano sinistra gira la manovella.
Chissà se fosse stato il piede.
I corridoi sono vuoti. Forse non ci sarà nemmeno un medico a visitarmi.

Nel passato i chirurghi erano barbieri. O meglio, i barbieri facevano i chirurghi. La differenza tra il radere un po' di barba e amputare un arto o togliere un dente? Nessuna. Solo pratica.
Barba, capelli e amputazioni a prezzi modici.
Ridacchio tra me e me.
Il chirurgo mi guarda malissimo ma il sopracciglio si inclina lievissimamente a mostrare un po' di pena.
Da quel fatidico giorno siamo rimasti pochi. Io non so nemmeno bene cosa sia successo, nessuno lo sa.

Io men che meno.
Il bagliore.
Il calore.
Il boato.

E quel silenzio.
Molti sono morti, sciolti come ghiaccioli lasciati al sole. Era raccapricciante. L'odore, che odore.
Il sangue, i liquidi corporei.
Essere e non essere, immediatamente dopo.
Stavo parlando con la vicina. Si è liquefatta sotto i miei occhi, io no.
Io non so come mai, io sono rimasta.
A metà.

La pelle ogni tanto si stacca ma finora ero riuscita a sopportare.
Nemmeno tanto il dolore, è strano, non fa male. È immensamente fastidioso.
Innanzitutto non posso indossare nessun tipo di abito, rischio di scollare anche quel poco di pelle rimasta.

Non si spaventi quando entra, resti qui in attesa, la chiameranno.

Lui ha perso solo la mano, destra poi. Chissà come ha fatto a restare così integro.

Oltre a non poter indossare nessun tipo di vestiario, i pochi uomini rimasti mi guardano con estremo ribrezzo. Ci si sente soli, senza pelle. Che poi fossero messi meglio, loro.
Ho resistito al fastidio di andare in giro nuda, tanto siamo pochi. Ma nuda nuda, doppiamente nuda perché di pelle ne è rimasta poca.
Poi però mi ha intaccato il viso e bhe, non sono mai stata una modella. Ho il nasone, i denti storti, il mento praticamente assente e le orecchie a punta.
Sono simpatica, direbbe un papabile uomo rimasto in vita, forse l'infermiere che ha ancora tutta la faccia e può indossare i vestiti.
Ma almeno la pelle. Avevo una bella pelle, che non dimostrava i suoi quasi 40 anni.

Lì al buio, però, sento enormemente la solitudine. Quando è così buio come fai a sapere se hai gli occhi aperti o chiusi?
Necessito di un briciolo di luce.

Canticchio.
Come faceva quella canzone?
When the night has come
And the land is dark
And the moon is the only light we'll see
No I won't be afraid, no I won't be afraid
Just as long as you stand, stand by me

And darlin', darlin', stand by me, oh now now stand by me
Stand by me, stand by me

Buio.

Ma poi che faranno mai in un centro medico senza elettricità? A dir la verità credevo di trovarlo disabitato e vuoto. Morto come la maggior parte degli esseri viventi. Deturpato di sicuro come tutti i viventi.
Tranne l'infermiere.
A lui manca la mano. Destra.
Per il resto sembra integro.

Sento un cigolio inconfondibile. La porta si apre.
Ecco, penso, ci siamo. Il mio barbiere. 
Del resto anche una spuntatina ai capelli ci sta, dopo l'ultima decolorazione ho praticamente ucciso le punte.
Se bella vuoi apparire, un po' devi soffrire. Diceva mia cugina quando ero piccola e lei, dalla maestosità dei suoi 5 anni in più, spazzolava i miei lunghissimi capelli. Doloroso, molto doloroso.

Non sento passi però. Cerco di muovermi verso il rumore.
Ho sempre detestato il buio totale. Ho costretto le persone con cui ho vissuto a dormire sempre con la tapparella un po' sollevata, a far entrare un briciolo di luce. 
Sì ho detto briciolo perché la luce è sia onda che particella.
E penso alle particelle come briciole.
Sono una cazzo di falena che vuole la luce.
Trovo la porta e mi ci infilo.
È qui il mio barbiere?
Silenzio.

La porta dietro di me si chiude. Ok, ha fatto bene l'infermiere ad avvertirmi, ora ho paura. 
Una luce a led si accende. Potrebbe essere debole ma dopo l'oscurità sono costretta a chiudere gli occhi.
Ehi, sembra una cabina elettorale. Solo che invece della scheda elettorale c'è un biglietto.

Un piccolo compenso per un grande dono.

Bello scherzo barbiere, senti ma se ti chiedo di spuntarmi i capelli che sia un centimetro e basta, non come fate di solito che poi mi trovo ad aspettare sei mesi per averli di una lunghezza decente!

Ridacchio ma sono nervosa.
Gas.
Tosse.
Buio.
Il nulla.

Balbettio confuso, luci a led in faccia, vedo tutto sfuocato, un'ombra enorme su di me. Enorme.
Antenne?
Cazzo sembra la mia lumaca gigante africana. Debra, il suo nome, come la sorella di Dexter.
Che è scappata, come cazzo abbia fatto.
Ridacchio.
Devono essere potenti questi gas, le allucinazioni.

Buio.
Il nulla.

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Bhe dai poteva andarmi peggio.
Lo specchio riflette la mia immagine che ha una pelle molto più bella rispetto a prima di quel giorno. Il mio corpo senza più una cicatrice. Nemmeno una.
I barbieri di oggi fan miracoli con questi unguenti.
Barba, capelli, amputazioni e unguenti a prezzi modici.
Ridacchio.
Non una ruga.
Ma come cazzo avranno fatto? La gente si è liquefatta sotto i miei occhi e io sono perfetta.
Bhe il nasone sta dove sta.
Il polpaccione non si muove.
Il makeup sarebbe da perfezionare. Ma tanto poche persone potranno criticarlo.
Siamo davvero pochissimi.

Ci sono cose che ancora faccio fatica a fare, per esempio tagliare la frutta e la verdura. Lavarmi i denti.
Schiacciarmi i punti neri.
Ridacchio.

È che la mano sinistra faccio davvero fatica a usarla.
Dovrei forse provare con i piedi.

26 marzo 2019

La ringraziamo per aver scelto la nostra compagnia

Vuole altro champagne?
La hostess sorride più del dovuto. È bella, bellissima e ha l'aria sveglia. Potrebbe fare qualsiasi altra cosa invece di essere qui. Proprio qui, poi.
Ricambio il sorriso con quella che a me riesce più come una smorfia.
Sì, la ringrazio.

Il posto accanto a me è libero, e l'aereo quasi vuoto.
Mentre la hostess mi versa lo champagne non posso fare a meno di pensare che, anche se ho investito tutti i miei risparmi in questo viaggio, sono felice.
Davvero felice come non lo ero da tempo.

Sorseggio le mie bollicine e penso che sia strano bere prima di decollare.
Rido di questo pensiero.

Rido così forte che gli altri passeggeri si voltano e mi guardano.
Qualcuno sembra molto agitato.

Sta bene? Le serve qualcosa?
La hostess sembra mi stia corteggiando.
Tutto bene, grazie. Solo un po' di agitazione pre-volo.
Sorride: la capisco, è il mio primo giorno di lavoro per la LT e sono molto agitata anche io, vorrei che tutto fosse perfetto.

Mi accarezzo i lobi delle orecchie per mostrarle i miei costosissimi orecchini.
Ho sempre considerato superflui certi vezzi, come questo vestito giallo, che ha impiegato l'altra parte dei miei risparmi. Ma valeva la pena, per oggi, per questa occasione.

Sorride ancora.
Forse ho sbagliato a giudicarla una sveglia, sembra che non sappia fare altro. Insomma un'esistenza di cui nessuno potrebbe sentire la mancanza.
Anche se mi sembra di avere intravisto un'ombra nei suoi occhi. Forse un barlume di coscienza, qualcosa.

Qui è il pilota della LT che vi parla. Allacciate le cinture, in meno di un'ora arriveremo a destinazione. La temperatura primaverile e questo sole renderanno il viaggio ancora più piacevole. 

Cerco la cintura. Rido di nuovo.
Non riesco a contenermi e gli altri passeggeri mi fissano.

Scusate, a volte mi succede.

Allaccio la cintura sotto lo sguardo indispettito dei miei compagni di viaggio. Sorrido. Magari funziona anche per me.

Chiudo gli occhi. Sento l'aereo che prende velocità. Accarezzo il morbido tessuto del mio vestito giallo.

Apro gli occhi. Devo essermi addormentata, perché siamo ad alta quota, sopra soffici nubi bianche. Avrei dovuto drogarmi, sarebbe stato davvero un bel trip. Rido di nuovo.
Altro champagne?
La hostess ha gli occhi lucidi, anche se sorride.
Nelle file opposte alle mie qualcuno piange stringendo una foto.

No grazie, sono a posto così.

Non volevo che fosse un viaggio triste.
Sgancio la cintura.

È proprio bello il colore dei suoi capelli.
Una lacrima le riga il viso. Continua a sorridere.

Il colore dei miei capelli è una variabile sempre così presente da diventare una costante nella mia vita. Dalle superiori in poi non ho mai avuto i capelli dello stesso colore e/o taglio. Ora sono azzurri, ma pochi mesi fa erano verdi, pochi mesi prima lilla, e così via fino a una storiografia del crine che arriva ai miei 15 anni.

Il passeggero triste ha smesso finalmente di piangere.

Guardo fuori dall'oblò: certo, è proprio una bella giornata di sole.

Presto però una fiammata venuta fuori dal motore interrompe i miei pensieri e li avvolge in una nube di fumo nero e denso.
L'aereo comincia a saltellare, come sotto la scia di una turbolenza.
Allaccio la cintura.
Sorrido.

Qualcuno piange o inutilmente grida Voglio scendere, ci ho ripensato!
Li guardo con malcelato disprezzo.
Ci vogliono le palle per fare una scelta e per portarla fino in fondo.

Qui è il pilota della LT che vi parla. Stiamo perdendo velocemente quota. Vi chiedo di mantenere la calma, restate seduti e con le cinture allacciate. Ripeto, mantenete la calma. Urlare non serve a niente.

Molto rapidamente, da sopra le nubi ci ritroviamo sotto. Posso vedere i tetti delle case
Chiudo gli occhi. Hoka Hey.
Le risate di Padre, l'abbraccio tenue di Madre, le furiose litigate con mia sorella, il mio primo bacio, le lacrime di un amico, l'amore che ho ricevuto, quello che ho donato, un regalo inaspettato, le brutte parole dette e ricevute, il calore dei miei nipoti, tutte le piccole bestiole di cui mi sono presa cura e che mi hanno curata, le chemioterapie, gli interventi, il cuore che batte forte, e ancora, e ancora, uno sguardo innamorato, una foto dimenticata, le nostre mani che si cercano, il calore dell'urina che sento scivolarmi via a macchiare il mio bel vestito giallo, il mio volto bagnato da silenziose lacrime, il buio.

****************************************************

Se lo diceva spesso che la divisa da poliziotto non gli donava, Avesse almeno avuto un altro colore.

- Allora cosa hai trovato?
- Non molto. Se non che la compagnia LT registra il più alto numero di incidenti aerei finora riscontrati. A dirla tutta sembra non sia mai riuscita ad arrivare a destinazione.
- Avete ritrovato la scatola nera?
- No, nulla, sembra non esistere.
- Continuate a cercare.

Dal suo punto di vista, all'ormai decimo aereo della LT precipitato, poteva anche non fare nulla. Avrebbe potuto scrivere lo stesso verbale copiato dagli altri. Nessuna indagine aveva mai portato a nulla di fatto.
Aveva provato anche a guardare le cose da un altro punto di vista e cercare informazioni sui passeggeri. Alcuni soffrivano di depressione perché avevano perso il lavoro, dai conti bancari si notavano grossi prelievi prima della partenza. Perché partire e spendere così tanto dopo aver perso il lavoro?
Altri erano dei sociopatici.
Altri in apparenza, normali.
Ma cosa è davvero normale? Chi è davvero normale?
I corpi dilaniati delle vittime, coperti da teli neri, erano lì, pezzi di carne scomposti senza alcuna memoria di essere stati, un tempo, creature pensanti.

- Capo, abbiamo trovato questo.

Il solerte ragazzotto gli portò un foglio di giornale, non si poteva comprenderne la testata, dal quale era stato cerchiato un annuncio.



Si allontanò presto dalla scena, con quel pezzetto di carta, con il telefono in mano.
Del resto era molto che ci pensava, le cose non accadono a caso.
Non era successo per caso.
Era lì per lui.

- Sì, buongiorno, vorrei prenotare un volo, uno qualsiasi, con la vostra compagnia. Sì, no, posso partire immediatamente.

Chiuse gli occhi.
Presto sarebbe tutto finito.

14 gennaio 2019

Il mondo sottosopra

Voglio narrarvi di questa avventura
di questa guerriera dall'aspetto un po' strano
che non mancava di avere paura
e che indossava un buffo pastrano.

Un giorno incontrò un grottesco animale
che ella seguì per natura curiosa
"Da dove vieni, belva anormale?"
"Ma che domande, ma come osa!"

E la guerriera, nascostasi lesta,
vide l'ingresso di un mondo pazzesco
in cui elfi e gnomi facevano festa
e tutto intorno un ambiente fiabesco.

Da un'iscrizione incisa in un pino
lesse qualcosa che la fece tremare
"Caro avventore, stai pur supino
qui all'incontrario devi guardare!".

Ella si mise così apposta sdraiata
con la testa al contrario a guardare le fate
che all'incovercio la vita è sbagliata
ma se ci credete, allora ascoltate:

"Getta il tuo cuore nel mondo al contrario
tieni il respiro, non muovere un fiato
Guerriera tu credi, non è un lebbrosario
attraversa la porta" disse adirato.

"L'Amore che nasce attraverso le spine,
la morte vestita di rosso rubino,
il giorno che mostra immense rovine,
la notte che ammicca con far birichino"

Veloce vorresti cercar di capire
il mondo fatato però non aspetta
sei in pasto ai leoni e vorresti fuggire
volare, scappare, in tutta fretta.

Non tutto è normale, nel mondo al contrario.
Se provi dolore, diventerà amore?
Cerchi la prova nell'arbitrario
ma questo pensiero ti spezzerà il cuore.

Guerriera nostrana, guerriera fiamminga,
alfin questa terra ti ha conquistata
non lasciar più che il normale ti vinca
ragiona al contrario, sorridi beata

ché il leone alla fine non ti ha divorata
anzi nel pelo hai affondato narici
e fusa hai sentito, ne eri onorata
immersa com'eri nei suoi benefici.

La notte portava lieti sorrisi
le ombre schiarivano pensieri nebbiosi
il sole scuriva e teneva divisi
il giorno donava timor velenosi

La Guerriera rimase nel mondo al contrario
dimostrando a tutti la passata paura
ché non esisteva alcun avversario
nemmen nella situazione più dura.

Avreste mai detto che un giorno recente
sposò un bel principe, pittore moderno:
le mani da sogno, lo sguardo sfuggente,
perduto da sempre in un piccolo inferno.

Nel mondo al contrario, lì sì funzionava
non uscirono mai, e tra fate ed elfetti
si strinser le mani, la notte brillava,
dolci canzoni, momenti perfetti.

Sovvertite il pensiero miei cari guerrieri
cercate il buio, l'ombra più scura.
Amate il rischio, gli orrori più lieti,
nel mondo al contrario è la via futura.


Canzone del giorno: Behind Blue Eyes The Who

25 giugno 2018

Mimas tiliae

Saresti una mamma perfetta, perché puzzi di merda di vita.
"Quella è la costellazione del cane lercio. L'hanno chiamata così perché sembra un cane e quelle stelle ai margini sembrano gli aloni di puzza che lascia. Ah e quella è la costellazione dei punti neri. Perché se la vedi in negativo sembrano dei punti neri su un grosso naso. E quella lì, quella è la mia preferita, è la costellazione della Mimas tiliae. È una falena bellissima. La falena del tiglio."

"Mamma, sono stanca, andiamo a casa."

"Lo so che ti spaventano le falene e non ne vuoi sentire parlare."

Sbuffa e si dirige verso la macchina. Mi alzo e mi sistemo il tailleur spiegazzato e i capelli, raccolti in uno chignon.
Lei si chiama Lupa.
Lo so, è un nome particolare, ma meglio di quanto si sente in giro, dai tifosi del calcio che rendono i propri figli meteore sportive alle persone che si ostinano a dare nomi stranieri, di altre culture.
Il suo nome ha una storia, come tutto il resto. Voglio che con quel nome si ricordi di essere una donna coraggiosa e che non si faccia calpestare. E che trovi il suo branco, quello giusto, da sorreggere e che la sorregga, voglio che non sia come me, che non si faccia piegare dal sistema.

Ho deciso di diventare mamma molto giovane perché volevo creare un legame unico con mia figlia. E così a 18 anni, con una provetta e un donatore, lo diventai.

Fu straziante e dolcissimo. Il parto è un fatto di amore e sangue che nessun uomo potrà mai comprendere. È questo che abbiamo noi: il dono di portare avanti la vita. Ed è l'unica cosa importante.
La camicetta bianca si è sporcata di erba. È un vero peccato che mia figlia detesti gli insetti, e l'arte, e la fotografia. Lo so che lo fa per darmi addosso, è adolescente, un vero vulcano. Si è già fatta il primo tatuaggio: io ero contraria, ma non mi ha chiesto il permesso. Si è tinta i capelli di turchese. Se lo avessi saputo glielo avrei vietato.
L'ho iscritta a tanti sport. L'equitazione, la pallanuoto, il golf: qualsiasi cosa che le impegni il tempo e mi permetta di andare avanti con la mia carriera.

Non ho tempo libero perché di passioni ne avrei molte, avrei voluto diventare una zoologa, una volta. Ero piccola e giocavo con le formiche. Poi ho provato con la fotografia, ma ho capito presto che niente poteva rendermi quanto il mio posto attuale.

Il mio lavoro è marginale ma molto importante, mi occupo di catalogare le masse che possono essere identificate come pianeti. Ci sono parametri specifici. Se sembra complesso vi assicuro che non lo è affatto: un telescopio raccoglie dei dati, li passa a un computer che registra qualsiasi variazione in termini di onde radio. Io controllo che nulla si inceppi.

A mia figlia dico che passo le giornate guardando il cielo, e che non smetto mai di sognare. Lei sbuffa. Vorrebbe fare qualcosa di concreto, lavorare il legno, scolpire (nulla che sia artistico, potrebbe venirle un eritema), le andrebbe bene anche guidare un camion. Tutto ciò che possa essere l'opposto di ciò che sono io.
Mi avevano avvertita: l'adolescenza è un periodo buio. Tutto l'amore che puoi dare viene respinto, il tuo cuore calpestato nel peggiore dei modi e il tutto con un'indifferenza spietata, calcolata.

Ricordo l'odore del parto. Vi racconteranno di momenti dolcissimi, io ricordo il ventre spezzato, il dolore atroce, la quantità di persone lì davanti. Nessuno a tenermi la mano. E tutto questo per arrivare, 19 anni dopo, con il cuore spezzato.
Dal ventre al cuore. Non c'è male come passaggio.

Non sono riuscita a terminare il periodo di maternità perché rischiavo di perdere il lavoro.
A dire la verità non lo so. Ma non potevo rischiare.

Solo dopo un mese ero già col mio tailleur, i miei tacchi, la camicetta e la giacca. Ho tantissimi completi così, anzi direi solo quelli. Tessuti diversi e colori diversi.
Questo volevo diventare, questo sono diventata.

Non ho avuto bisogno di nessuno al mio fianco per realizzarmi, per essere quello che sono.
E a parte Lupa, non sento il bisogno di avere nessuno accanto.
Le mie giornate scorrono identiche le une alle altre.
Fino a che il computer non ha registrato una variazione molto intensa, così intensa da risultare vicinissima.
Vicina non in termini di anni luce, ma in termini di metri.

Una piccola deviazione del selettore ha portato a una scoperta sensazionale, ad appena pochi metri da noi, nel seminterrato.
In verità sarebbe stata un'anomalia che avrei dovuto evitare, ma l'entusiasmo era così grande che non sono stata licenziata. Lupa avrebbe sicuramente sbuffato.
Nel seminterrato c'è un buco, quello che i profani definirebbero un passaggio per un' "altra dimensione". Per noi è una piccola anomalia dello spazio tempo. Abbiamo avuto altri falsi allarmi ma poi si era trattato di forti campi elettromagnetici che andavano a interferire col selettore. Stupide macchine.

Questa volta però avevamo altri dati, le macchine erano impazzite, e i grandi cervelloni non si davano pace. C'eravamo: una scoperta più grande di un piccolo ammasso di materia senza vita che gira in tondo (ehm, in orbita ellittica) nel cielo (uh sì nello spazio, ok ok).

Paradossalmente il passaggio coincide con una vecchia porta inutilizzata. Come nei peggiori film di fantascienza: puoi aprire la porta e ti trovi direttamente dall'altra parte, con buona pace di scenografi che non devono inventarsi niente che non sia già stato visto. Una porta che permette un passaggio da un ambiente all'altro. Che fantasia.

Gli scienziati decidono di mandare dall'altra parte la persona più sacrificabile, ovvero io.
La cosa mi onora e mi offende. In fondo sono sempre stata fedele a questa azienda. Ci lavoro da prima del diploma (preso a pieni voti nel migliore liceo della città), ma il fatto di poter varcare la soglia per prima mi fa sentire importante. Non c'è null'altro, al momento, che voglio fare.

Vorrei dirlo a Lupa, ma sbufferebbe. Probabilmente si rimetterebbe le cuffie con la sua musica Heavy Metal. "Che noiosa che sei, Mà".

Mi danno una tuta ignifuga, una videocamera, una ricetrasmittente, un casco con l'ossigeno e un sacco di strumentazione. Anche qui, banali. Immaginate se dietro quella porta ci fosse un apparecchio strano che improvvisamente si è acceso da solo? Ti saluto promozione.

La porta è una porta, la maniglia gira come una maniglia, sembra tutto a posto anche se il rumore del mio respiro all'interno del casco è fastidioso. Forse perché sta accelerando.

Apro la porta.

Buio.

Chiudo la porta.

Il rumore del mio respiro.
Il rumore del mio cuore.

"Mi sentite?"
Niente.
Torno indietro, apro la porta, il cuore in gola. Buio.

Non c'è il laboratorio, né i grandi cervelloni. Solo una stanza, credo, buia. O forse proprio il buio.

Forse quel buio che ti porti dentro, che visualizzi all'esterno. Di cosa si può avere più paura se non di quel buio?

I rilevatori indicano che l'aria è respirabile, la pressione identica alla nostra.
Secondo me è uno scherzo. Sono in un'altra stanza e di là hanno spento le luci. Tolto tutto.
Quando tornerò spaventata accenderanno le luci gridando SORPRESA.

E io riderò nervosa.

Ah già, ho una piccola torcia. Voglio dire: una strumentazione da milioni e non una torcia?
Sarebbe stato da film dell'orrore di serie B.

Penso a Lupa, voglio che sia orgogliosa di me, che capisca l'importanza di essere una donna determinata, lei tanto non saprà mai che hanno mandato me perché sono sacrificabile. A lei dirò che doveva andarci qualcuno di importante, qualcuno che non rinuncia ai sogni, qualcuno che sa gestire una mole enorme di dati, che può raccoglierli, "che quei cervelloni in più di me hanno solo la laurea".

Mi tolgo il casco, accendo la torcia. Sembra una cantina. C'è un corridoio lungo, odore di muffa. Mi tolgo la tuta. Appoggio tutto per terra. Devo essere uscita (entrata?) da una di queste porte.
Non so cosa fare.
Resto in attesa ma gli eventi scelgono per me. Rumore di passi (spengo la torcia) una luce si accende e la vedo.
Mi vedo.
Sono io.
Mi guarda.
La guardo.

A doverle dare una definizione a posteriori, direi che è la gemella ribelle di me. Sembra Lupa. Ha dei tatuaggi, un teschio su una spalla, un garofano (forse un papavero) sull'avambraccio. Altri disegni incomprensibili. I capelli colorati.
Le cadono le chiavi dalle mani.

Restiamo un momento così immobili. Forse è più di un momento, sono quegli istanti in cui non comprendi bene cosa fare, in cui ogni secondo sembra incredibilmente infinito.

Indossa dei miserabili jeans.
Se potessi li abolirei.
Mi guarda.
La guardo.

"Lupa? Dove è Lupa?" le dico.
Forse qui c'è una Lupa disciplinata e dolce, non sarà mai mia figlia ma voglio conoscerla?
"Cosa? Chi? Chi sei?"

Sembra confusa, ma anche triste per me. Ha uno sguardo profondo, dolce e malinconico. Raccoglie le chiavi.
Si avvicina.
Mi allontano.

"Tu sei..."
"No, ci somigliamo soltanto"
"Da dove arrivi? Che ci fai qui? Come sei vestita?"

Guardo il mio abito elegante a pantaloni usato per l'occasione. Il tailleur a gonna non stava sotto la tuta.

Non so cosa rispondere.
Cosa fareste se trovaste di fronte a voi la vostra esatta copia ma completamente diversa?
Riuscite a capire il paradosso?

Si avvicina, non mi muovo.
Si avvicina ancora. Resto immobile.
Mi abbraccia.
Piango.

"Vieni con me"
Mentre il timer decide che è passato abbastanza tempo per restare alla luce del neon, mi tiene per mano. La stessa mano fredda. È visibilmente agitata, lo sento dai nostri respiri.
"Chi è Lupa?"
"È mia figlia"
"Hai una figlia?" lo esclama con stupore mentre mi trascina verso la luce.
Il sole è forte, siamo circondati da piante di lavanda, c'è una pozza d'acqua a valle, che posso vedere distintamente.
"È il lago, io vivo qui"
"Sembra tranquillo"
Le racconto brevemente del mio scopo, della porta, di mia figlia. Non riesco a non entrare nei dettagli, è come parlarsi dentro, è come se l'altra mia metà oscura mi stesse ascoltando davvero.
Mi racconta di lei, dei suoi problemi di salute, del suo rapporto che sta andando in pezzi, delle sue passioni (incredibilmente vicine alle mie). Stacca una infiorescenza di lavanda.
"Tieni"
La annuso. Lupa non mi crederà mai.
Sembra più giovane di me, ora che la guardo bene. Ma i suoi occhi sono più stanchi dei miei.
"Scusami, devo prelevare dei dati e fare delle foto prima di andare via"
Ma andare dove? Quella porta sembrava non andare più da nessuna parte.

"Certo, fa' pure. La tua storia ha dell'incredibile. Probabilmente tra poco mi sveglierò con Maya tra le braccia. Sai, la sua lingua ruvida è fastidiosa, ma non potrei stare senza lei addosso ogni notte. Oh, Maya è una delle mie due gatte"

Annuisco.

La guardo.
Ma davvero ho quegli occhi?
Dopo le prime somiglianze, ora noto solo le differenze. Sembra spaesata, sembra non sapere quale sia il suo posto nel mondo.
"Davvero non hai figli?
Sgrana quegli occhi così grandi che non sembrano davvero i miei "Ma che, scherzi?"

Lupa ne sarebbe colpita. Un modello.
Probabilmente niente carriera, colorata e vivace, dall'animo un po' triste e apparentemente, ma solo apparentemente, selvatico.

"Possiamo farci una foto insieme?"
"Certo"
Sistema i suoi capelli colorati.
Estraggo la mia mirrorless dallo zainetto lasciato come equipaggiamento. Sorride ma non saprò mai perché.
Veniamo distratte in fretta da qualcosa vista con la coda dell'occhio. Un movimento irregolare nell'aria e l'immobilità su un tronco. La bellezza e la perfezione di un essere incredibile.
Una falena. Quella falena.

"Mimas tiliae" esclamiamo in coro.

22 giugno 2018

La (triste) fine di una Drosophila

Ti mando una canzone, ascoltala quando puoi. Un po' triste ma molto bella. Un po' come te oggi.

Non ho avuto cure parentali. Nel mio DNA è scritto cosa devo fare. Mangiare, defecare, riprodurmi e poi morire.
Non conoscevo la parola Morte finché un'altra Drosophila con me in questa colonia non me ne ha parlato. Dice che i Grandi Bipedi ne hanno un sacco paura. Prima di essere catturata e introdotta in questa colonia si era intrufolata in uno strano alveare, pieno di Bipedi Giganteschi che lui ha soprannominato Grandi Bipedi. Uno di loro muoveva le ali in modo confuso e aveva una frequenza tonale alta. La Drosophila vibra le ali cercando di farmi capire ma dice che non è la stessa cosa.
Parlava della Morte, e versava del liquido dall'apparato oculare. Che spreco di risorse! I liquidi sono importanti, io lo so, che cerco sempre di averne un po' dalla frutta in decomposizione.

La Drosophila dice anche che un altro Grande Bipede aveva detto a un altro che noi siamo importanti. Perché pare che il nostro DNA lo abbiano studiato per filo e per segno. Ecco perché conosco la parola DNA.
Non so cosa sia esattamente il DNA e perché interessi così tanto ai Grandi Bipedi che con un movimento di ali possono provocare la fine del nostro ciclo vitale.

Io spero almeno di arrivare alla riproduzione.


Non ricordo esattamente quando sono uscita dall'uovo. Ero una piccola larva e di sicuro mi sono sgranchita le estremità. Poi ho cercato cibo.
Forse è scritto anche questo del DNA. Praticamente ho scoperto che tutto quello che facciamo è scritto nel nostro DNA.

Molte delle altre larve sono annegate nel cibo. Sciocche, bisogna stare bene aderenti alle pareti del barattolo e cercare di non scivolare, ma non è facile.

Piano piano è poi arrivato il momento di impuparsi.
Ho trovato un posto adatto e solitario, anche se probabilmente poi è stato colonizzato da altre larve, e mi sono fermata.

Ed eccomi qui.

Il mio ciclo vitale sarà breve, ancora poco e dovrò cercare di fare delle uova. Anche se qui lo spazio è piccolo e non riesco a sgranchirmi le ali. Ogni tanto la superficie superiore di questo spazio si apre ed entra la luce. I miei fratelli si lanciano all'esterno e io posso vederli attraverso la trasparenza delle pareti della colonia in cui vivo che saltellano su una superficie piatta e grigia, sono liberi. Ma non riescono bene a volare, forse perché qui dentro c'è poco spazio e nemmeno loro riescono a sgranchirsi le ali.

In fondo non si sta male, c'è cibo, ci sono tanti compagni e la riproduzione sarà facile.

Ma raccontano che alcuni di quelli che escono sono in realtà liberati da un Grande Bipede come pasto per un un ottapode, che i Grandi Bipedi definiscono Ragni.

Perché un Grande Bipede dovrebbe impedirci di riprodurci, e concludere serenamente il nostro ciclo vitale?
Non so cosa significhi serenamente, ma la Drosophila che conosce tanto bene i Grandi Bipedi la usa spesso. Quindi ho deciso che la userò anche io.

L'ottapode è in un'altra struttura trasparente, più piccola della nostra colonia. C'è solo lui e una serie di fratelli morti. Non appena qualcuno dei nostri fratelli scivola lì dentro, l'ottapode gli salta addosso, mentre gli altri guardano la scena terrorizzati. Non possono scappare.

Non so cosa significhi la parola terrorizzati, ma ho sentito il Grande Bipede che lo diceva.  Quindi ho deciso che lo dirò anche io.

Dunque è questa la Morte?
Forse la Morte è solo quando un Grande Bipede non conclude il ciclo vitale e viene mangiato da un enorme ottapode. Non so.

Ho scoperto delle cose sui Grandi Bipedi. Per esempio fanno sempre le stesse cose alle stesse lunghezze d'onda dello spettro fotometrico.

Una volta il Grande Bipede ha detto "È tardi" mentre si agitava freneticamente cercando di aprire la parete superiore e l'ottapode si lustrava le otto strutture oculari con i pedipalpi.

Io non attenderò la Morte tra i pedipalpi dell'ottapode.

Voglio studiare i Grandi Bipedi. Così forse potrò completare il ciclo vitale, aiutare i miei fratelli a scappare.

Attendo la radiazione solare giusta e l'apertura superiore del contenitore che avviene, come previsto, sempre nello stesso momento.

Salto in una struttura cespugliosa che copre il capo del Grande Bipede. Ha una lunghezza d'onda di 490 nm circa ed è strano perché l'altro Grande Bipede che vive nel Grande Alveare (hanno questo Alveare gigantesco con delle celle più o meno regolari e nessuno spazio per le uova, né per le larve o per le pupe! Incredibile! Dove le metteranno le uova?) ha una struttura cespugliosa di tutt'altra lunghezza d'onda. Magari esistono più specie di Grandi Bipedi e io sto sottovalutando la cosa.

Resto lì nascosta e aspetto.

Esce dal Grande Alveare e lo chiude con una struttura piena e pesante, sembra. Come farà poi a disintegrarla? La costruisce e la disintegra ogni volta per entrare o uscire? Forse è come il coperchio del posto in cui stavo con la mia colonia, si può spostare e rimettere. Ingegnosi questo Grandi Bipedi. Così i grossi predatori non ammazzano le loro larve.
Poi una cosa buffa. Scivolano sulle zampe inferiori senza usare le ali. Perché non volano? Sono forse troppo grandi e pesanti? O forse ingombrerebbero tutto il cielo dato che sono tanti?

Comunque dopo un po' di questo scivolamento il mio Bipede è entrato in una cella mobile. Non era un alveare ma solo una cella e anche questa cella scivolava via. C'erano tanti altri Grandi Bipedi e quasi tutti maneggiavano queste cose che parevano delle tavolette di cioccolata ma senza mangiarle e queste non si scioglievano. Alcune di queste tavolette avevano un filo collegato, che poi si divideva in due e le estremità erano infilate in due buchi posti ai lati del capo dei Bipedi. Decisamente buffi.

Non ronzavano, né vibravano le ali. Nessuna frequenza sonora, solo quella della cella in movimento. Nessuno pensa ad accoppiarsi o a riprodursi. O a procurarsi cibo. Cosa mangeranno i Grandi Bipedi?

Il mio Grande Bipede si era posizionato ripiegando le zampe inferiori su una struttura apposita e guardava attraverso una superficie trasparente.

È rimasto così immobile per un po', finché non ha esteso di nuovo le zampe posteriori, è scivolato all'interno della cella, è uscito da una fessura abbastanza grande (e di nuovo richiudibile! Avrei tanto da imparare da loro) e ha continuato a scivolare.
Che vita poco interessante. È passato tantissimo tempo e finora non ha fatto altro che scivolare. Non si è preso cura di nulla, non ha cercato cibo, non ha vibrato le ali, non si è pulito le zampe.

Forse hanno un ciclo vitale molto più lungo del nostro e possono permettersi di impiegarne gran parte a fare queste cose prive di senso. Forse è scritto nel loro DNA (nota: se fosse un DNA diverso dal mio? Avrebbe tutto senso).

A un certo punto ha preso la tavoletta di cioccolato e l'ha portata davanti al capo. E dentro la tavoletta si vedeva quello che c'era lì di fronte al suo apparato oculare. Incredibile. Perché vedere dentro una tavoletta quello che l'apparato oculare (nota: non hanno occhi composti) può osservare benissimo da solo? Forse non vedono bene e sono apparecchi che permettono loro di osservare l'ambiente circostante.

Potrebbero essere dei rilevatori di predatori.

Così, scivolando con la tavoletta in mano, ha cominciato a procedere in senso obliquo verso l'alto. Questa struttura obliqua e con pedane di altezze regolari, con una frequenza di circa 650 nm, era piuttosto lunga e sconnessa. A un certo punto ha esclamato "Uff, una ragnatela" e io ho pensato alla parola Ragno. E speravo non ci fossero ottapodi in vista.

Sono rimasta all'erta per un po', poi forse è stato un falso allarme (nota: gli ottapodi giganti potrebbero essere predatori dei Grandi Bipedi? Se così fosse potrebbe avere un senso che lo abbia dentro il suo Alveare. Forse lo sta studiando per difendersi).

Dopo tutto questo ondeggiare siamo arrivati su una struttura alta. Drosophile come me non arrivano a questa altezza, non ha senso. Non c'è cibo. Né altre Drosophile (perché non c'è cibo), quindi non ci si può accoppiare. Ho avuto per un attimo paura di completare il ciclo vitale senza accoppiarmi.

Non so cosa significhi la parola paura, ma ha un bel suono, quindi penso che la userò.

Dopo aver spaziato con la tavoletta in tutte le direzioni per assicurarsi che non ci fossero predatori ha ripreso la struttura obliqua scendendo verso il basso. Non ha più la tavoletta in mano, come a fa a vedere così?

Morirò senza riprodurmi?

Comincio ad annoiarmi. Non c'è niente di interessante nel ciclo vitale di questi bipedi. Ci credo che hanno studiato il nostro DNA, io non studierei mai il loro DNA. Vorrei tornare alla colonia ma devo attendere che il Grande Bipede torni all'alveare.

Peccato che si reca in un altro alveare. Enorme e grigio.

Prima entra in una cella strettissima con delle porte richiudibili (frequenza circa 700 nm) con altri Grandi Bipedi che producono onde sonore altissime. Mi vibrano le ali!

Poi esce da questa cella e ci troviamo in un posto diverso da dove siamo entrati. Questo sistema di scivolamento è eccezionale! Sarà scritto nel loro DNA?

Entra poi in una cella ENORME. La temperatura è più bassa dell'esterno, spero di non rallentare il mio ciclo vitale. O forse è meglio, così ho più tempo poi e sono certa di potermi riprodurre. Scivola scivola e sento una gran quantità di onde sonore.
Per lo più "Buongiorno", o "Ciao".
Qualcuno parla al mio Grande Bipede dicendo "Oh Carla".
Sarà il nome della sua specie?

Oh Carla si posiziona come sulla cella che si muoveva, piegando le zampe inferiori, maneggia con una scatola scura e si accende una luce su una piattaforma rettangolare. Lunghezza d'onda circa come la massa cespugliosa di Oh Carla. Che immensa noia.
Ancora nessuna preparazione alla riproduzione.

Non so cosa significhi la parola noia, ma ogni tanto la Drosophila che conosce bene i Grandi Bipedi la usava. Mi piace molto, da quando l'ho sentita la uso spesso anche io.

La temperatura bassa mi impedisce di muovermi. Come fanno a vivere con questi delta termici? Forse hanno un ciclo vitale così lungo perché si ibernano di proposito in modo da avere più tempo per la riproduzione.

Noto che molti Grandi Bipedi hanno le zampe inferiori ricoperte da qualcosa mentre altri hanno un tessuto rosa che dovrebbe chiamarsi pelle.

Penso che le femmine di queste specie (sono così diversi per forma e dimensioni che credo non siano tutti della stessa specie) abbiano le zampe inferiori scoperte e i maschi invece no.

Oh Carla è sicuramente un maschio.

"Buon lavoro".

Cosa sarà mai il lavoro? Sta di fatto che ho passato il periodo più noiosamente lungo del mio ciclo vitale su quell'ammasso cespuglioso.
"Ma cosa hai fatto ai capelli?" dice un Grande Bipede maschio, e con l'ala strofina il masso cespuglioso e per poco non cado.

Forse il masso cespuglioso si chiama Capelli. Prendere nota.

Ogni Grande Bipede ha dei Capelli diversi. Qualcuno pare non averne, mettendo in mostra la pelle del capo.
Queste differenze serviranno sicuramente alla riproduzione. La femmina sceglierà il maschio con i capelli più belli anche se sembrano le femmine ad avere capelli più belli. Tranne Oh Carla, lei ha dei capelli bellissimi. Avrà tanto successo con le femmine della sua specie.

Forse usano la parola lavoro per indicare la riproduzione. Non vedo deposizioni di uova né celle atte al mantenimento delle stesse. Non capisco la finalità del loro ciclo vitale.

Dopo tanto, tantissimo tempo, Oh Carla decide di scivolare via. Ma in realtà tutti i Grandi Bipedi scivolano via. Forse vanno finalmente a caccia di cibo.

Saranno frugiferi? Se apprezzano la frutta marcia posso mangiargliene un pochettino, ho un po' fame.

Scivolando a una temperatura più calda, facendo lo stesso percorso a ritroso di qualche tempo fa, piega nuovamente le zampe posteriori in un posto più carino.

Ci sono altri esapodi, alati e non, e finalmente mi sento al sicuro. Se fossi un impollinatore avrei tanto cibo ma non vedo frutta marcia, mi toccherà attendere.

Oh Carla prende la tavoletta di cioccolato ma non sembra volerla mangiare. Certo, che stupida. Se gli serve per i predatori non la mangerà mica! Però produce onde sonore verso di essa.

Sento la parola triste, non so cosa significhi ma è una parola da far vibrare le ali. Penso che la userò anche io. Potrei forse bere un po' dai suoi occhi non composti, che sembrano raccogliere del liquido. Ma non mi fido, potrebbe essere una soluzione all'insetticida e io sarei Morta senza essermi riprodotta. E nutrita.

E poi sono già svuotati. Forse hanno bisogno di far uscire l'acqua per mantenere la temperatura corporea. Ingegnosi, questi Grandi Bipedi.

Però ora che ricordo, la Drosophila mi ha detto che svuotano gli occhi non composti di liquido quando parlano della parola Morte, e che è un evento non bello. Quindi forse triste significa evento non bello.

Ecco, lo immaginavo, è colpa mia. Deve essersi accorto che sono scappata. E d'improvviso pensa a un evento non bello. E rigetta liquido dagli occhi non composti.

Forse è vitale per Oh Carla darci in pasto all'ottapode. Se l'ottapode è anche un loro predatore e non riesce a nutrirlo magari poi arriva l'ottapode gigante e la divora. In fondo sembra che per riprodursi ci mettano tanto tempo. Da quando sono uscita dalla scatola non ho visto larve, né uova.

***

È passato tantissimo tempo. Se avessi saputo che avrei passato gran parte del mio ciclo vitale a studiare gli umani avrei rinunciato. A parte la tavoletta di cioccolato contro i predatori e i vari sistemi di scivolamento trovo il loro ciclo vitale piuttosto noioso. Da quando siamo usciti dal Grande Alveare a quando siamo tornati non saprei quantificare il tempo trascorso.
Forse ventimila miliardi di bzzz.

Ora devo fare la mia scelta. Posso tornare nella colonia restando tra i Capelli finché non c'è la lunghezza d'onda giusta di luce perché si apra la colonia, o entrare di mia spontanea volontà dall'ottapode. E salvare Oh Carla da morte certa.

In fondo sono sfortunati questi Grandi Bipedi, vivono spostandosi da una cella all'altra, conducono una vita noiosa e pare sia molto difficile riprodursi. Si nutrono a stento e anche con abbondanza di cibo sembrano non terminarlo, o non metterne via.

Sono costretti a ronzare in continuazione in celle fredde, senza uova né larve e senza cibo a disposizione.

In fondo sono fortunata, la mia colonia continuerà a vivere e a riprodursi anche se non lo farò proprio io. Qui non vedo colonie, e quando ci sono non hanno finalità.

I Grandi Bipedi sembrano per lo più solitari, ronzano solo se si incontrano, ma non ronzano tutto il tempo.

Magari posso aiutare la sua colonia dall'invasione dei Grandi Ottapodi e offrirmi io al piccolo ottapode. Magari l'ottapode mangia le loro larve.

Sapete cosa faccio? Attendo la lunghezza d'onda giusta e dai capelli scivolerò in un lampo tra i pedipalpi dell'ottapode. Per me non è un grosso sacrificio.

Non so cosa significhi la parola sacrificio, ma vibra tanto e mi sembra una parola impegnativa, quindi penso che la userò.

Pazienza per la riproduzione. Oh Carla e la sua colonia potranno riprodursi e generare Grandi Uova, e poi Grandi Larve e così via.

Per me sarà un momento. Forse per lui biliardi di biliardi di bzzz.

Alla fine dicono che il tempo sia relativo. Non so come faccio a saperlo, forse il mio DNA è stato mescolato con quello dei grandi bipedi mentre lo studiavano e io so molte più cose degli altri membri della mia colonia. O forse qualcuno lo ha detto vibrando le ali a Oh Carla.

Fatto sta che non mi pesa scivolare lentamente tra le zampe del Ragno attendendo la Morte.

È un breve istante.
Fatto circa di un milione di bzzz.


Canzone del giorno: Starsailor Way To Fall

18 aprile 2018

Giovedì

Sono convinta che oggi sia giovedì, il mio cervello ha saltato un giorno. Così convinta che ho preso anche il dosaggio di eutirox del giovedì.
Stamani, rinviando la sveglia, cercavo di indovinare il meteo odierno.
Suona la sveglia.
Spengo.
Potrebbe esserci pioggia.
Sogno.
Suona la sveglia.
Spengo.
Ma magari è solo nuvoloso.
Sogno.

E fu così amica pulcetta mia che ti ho sognato. Passeggiavamo di sera a Bologna e stava diluviando. Parlavi a bassa voce in tono serio, con il cappuccio della giacca che ti copriva mezzo volto. Pioggia così forte che anche il mio giacchino da montagna era zuppo. Non sentivo l'armonia e la musicalità della tua voce e le tue belle risate.
E nella folla per un attimo ci siamo perse, ma solo perché eri andata a prendere, per me, un biglietto del bus, per non so dove volessimo andare.
Io ero con delle persone. C'era un ragazzo che mi piaceva quando facevo le scuole medie, Alberto O.
Quando ero piccola sapevo che lui ascoltava una determinata radio e io la ascoltavo a casa. Un giorno ho sentito una sua richiesta radiofonica e l'ho registrata su cassetta. Era un bravo ragazzo Alberto O, doveva subire anche le angherie degli altri ragazzi perché lo "scarrafone" lo tampinava.

E pioveva, ed era buio.
Oggi devo assolutamente comprare la rafia e la nipagina per allevare le drosophile.
Che è già giovedì.

25 dicembre 2016

W.E.

Ti ho vista seduta in un caffè. Eri assorta nei tuoi pensieri e il tuo caffè lungo si stava freddando.
Non ho potuto fare a meno di notarti; quegli occhi, mioddio quegli occhi. L'universo tormentato dentro. Quel sorriso lieve: chissà per cosa.
Non eri bella ma c'era qualcosa che non potevo afferrare.
Il barista non è riuscito ad attirare la tua attenzione per sapere se volevi altro. Da quanto tempo eri lì?
Forse da molto. Di sicuro da sempre dentro la mia testa.
Sono due anni e mezzo ora, il pensiero torna a quel giorno.
A quel giorno in cui hai accennato mezzo sguardo verso di me, in un angolo, a quel giorno in cui ho compreso ma non del tutto.
A quel giorno in cui la mia domanda era se avessi dovuto seguirti per la vita, o lasciarti così, perfetta, in un angolo dei miei pensieri.

E oggi. Oggi quell'immagine va lentamente svanendo. Ma forse, soltanto forse, è diventata più viva che mai: così viva da essere me, quell'immagine. Così reale da essersi fusa in me creando ciò che sono.
Io, Lei, Noi.

11 luglio 2011

R'acconti

Come forse avevo già accennato, io e BadGuy ci siamo divertiti a scrivere dei racconti su un tema scelto da noi. In questo caso il tema, l'ho scelto io, era la monnezza.
Ed eccovi i racconti:

Carla

Una questione di cestino

E’ difficile spiegare come sono arrivata a questo punto, come sono arrivata qui, in questo ospedale, e perché io mi senta così intorpidita dalla luce che mi viene sparata sugli occhi per verificare cosa poi? Forse il fatto che io sia viva.
I ricordi si intrecciano nella mia mente, come fotografie sfuocate mescolate in un cassetto. E’ troppo difficile riordinare. E’ troppo complicato ricordare. Ma devo provarci.

1° giorno.
E’ il mio primo giorno di lavoro e sono entusiasta. Ci sono immagini non definite ma so per certo che ho cercato di socializzare. E mi ricordo il caffè del bar. Non era buonissimo ma per me i caffè sono tutti uguali. E poi ovviamente la mia scrivania, un po’ isolata dagli altri ma meglio. Nessuno mi romperà le scatole se scarico la posta ogni tanto, se mi infilo le dita nel naso, se scrivo sul blog.
Così mi viene un attimo fame e tiro fuori dalla borsa la mia merendina. Noto però che sotto la mia scrivania non c’è il bidoncino della spazzatura. Cosa buffa, perché nemmeno sotto la scrivania accanto alla mia. Penso che sia normale, in fondo queste due scrivanie prima del mio arrivo erano vuote, così mi alzo alla ricerca di un cestino e lo trovo sotto alla scrivania di M.
M. è l’unico autoctono tra i miei nuovi colleghi, gli altri arrivano tutti da fuori: fa un po’ il boss ma sembra simpatico. Mi chino a lanciare l’involucro del mio pasto all’interno del sacchetto scuro ma ecco che nell’aria avverto qualcosa.
Vi è mai capitato, nel silenzio più totale, di accorgervi di sentire qualcosa, una presenza? E di girarvi e accorgervi che, nonostante il silenzio e la mancanza di altri indizi, quella presenza è davvero lì. E quanta inquietudine quando invece vi voltate e non vedete nessuno alle vostre spalle? Fermate quella inquietudine, fissatela. E’ quella che provo ora. Il silenzio è totale e quando mi volto tutti mi stanno guardando. La mia risatina isterica li scuote un attimo: mi sento in estremo imbarazzo, ma la cosa finisce così. Nessuno ne parla più e ognuno torna alle sue mansioni.
2° giorno.
Non è che ci sia tanto da fare. Quando mi hanno assunta non avevano previsto che ci sarebbe dovuto essere qualcuno ad affiancarmi. Ma non può nessuno perché sono tutti molto impegnati. E io non so cosa chiedere e a chi chiedere. E’ una questione di timidezza penso. Non voglio disturbare, non voglio passare per ignorante, non voglio che uscita da quella porta qualcuno possa pensare male di me. E’ che quando sono nervosa mangio, e non so ancora dove posso buttare la mia spazzatura, dato che continuo a non avere un cestino.
Mi ricordo la strana sensazione provata il giorno prima ma mi convinco che si trattasse solo di una mia impressione, quindi mi alzo e cerco. M. mi guarda malissimo ma non capisco proprio come mai, così mentre passeggio con lo sguardo basso, cercando il famoso unico cestino di tutto l’ufficio, mi sistemo i capelli, eterna fonte di preoccupazione femminili - è il primo pensiero quello dei capelli, quando qualcuno ti fissa.. Peccato che il cestino non sia più sotto alla scrivania di M. “Scusate ma qui c’era un cestino, dov’è finito?”.
Nessuna risposta. Metto in tasca l’involucro della mia merendina e lascio passare quella stana sensazione.
3° giorno.
I miei colleghi sono proprio simpatici, in uno scherzo mattutino mi hanno staccato e scotchato tutti i cavi del pc facendomi perdere un’allegra mezz’ora. Sono qui da molto poco ma mi trovo davvero benissimo. Lo faccio presente anche a loro che mi massacrano di battute e devo dirlo: sono stata davvero fortunata. Appallottolo tutto lo scotch e mi metto nuovamente a cercare il cestino che, oggi, è in un angolino dietro l’attaccapanni, parzialmente coperto dai vestiti. Solo che quando mi ci avvicino succede qualcosa. Qualcuno, che in quel momento si trova dietro di me, mi da’ una lieve spintarella in avanti e per poco non cado. Ma quando mi giro non c’è nessuno. Mi chiedo davvero cosa ci sia legato a questo stupido cestino. Forse una questione di leadership. Per allentare la tensione sorrido a come possa essere possibile collegare questa parola a un semplice sacchetto della spazzatura. Ma ho un piano B.
4° giorno.
Appena arrivata poso la mia borsa sulla scrivania, saluto e vado ai piani alti. Infatti il mio ufficio, o meglio open space, è al primo piano ma al terzo ci sono i supercapocci. C. mi accoglie nel suo enorme ufficio semivuoto. Gli spiego la situazione, del cestino, della strana sensazione, e in un attimo mi sento stupida, si metterà a ridere, penso. Invece mi guarda con aria grave, appoggia la schiena sullo schienale in pelle nera della sua poltrona e unisce la punta delle dita delle due mani in un gesto pensieroso. Poi cambia atteggiamento: “Suvvia, che sarà mai? Si tratta solo di spazzatura. La getti fuori”.
Non conosce la frase “è una questione di principio”, ma che principio può legare spazzatura, ufficio e astio?
Lo saluto e decido di passare a un’altra strategia. In pausa pranzo vado al supermercato qui sotto e compro un bel cestino. Entro trionfante in ufficio portando tra le mani il cestino già corredato di sacchetto. Silenzio.
Lo poso sotto la mia scrivania ed esco a mangiare.
Peccato che, una volta tornata, trovo il mio cestino completamente distrutto. E’ in mille pezzi, e non ho nemmeno idea di come possano essere riusciti a ridurlo così. Non so come mai ma mi sento così frustrata, così impotente. E tutto per uno stupido cestino. Non so cosa mi è preso, ho cominciato a girare per l’ufficio, quasi correndo, nervosa, per cercare quello stupido oggetto di contesa. M. fa come per alzarsi mentre io sollevo il cestino e comincio a urlare “E’ per questo vero? E’ solo per questo? E’ solo un cazzo di cestino” e, sollevatolo sopra la testa comincio a vuotarlo per terra mentre M. mi corre incontro e F. lo segue a ruota. In poco tempo ho due persone a tenermi ferma. E davvero non so cosa sia successo, comincio a sbattere qua e là il cestino per romperlo ma non riesco, M. e F. sono due uomini, grandi e grossi, eppure fanno fatica a bloccarmi così, anche se poco, mi rimane un po’ di movimento.
In un impeto di rabbia, o follia, o non so cosa, prendo le forbici che trovo sulla scrivania di I. e le pianto in pancia a M. che finalmente molla la presa. Ora tocca al taglierino, che uso per sgozzare F. Non capisco più quale sangue mi scorre addosso mentre loro scivolano via da me e cadono a terra, in una pozza rossa. Con la forbice ripresa dal ventre di M. comincio ad “accoltellare” il cestino e giuro, mi pare di aver sentito uno strano suono provenire da lì.
E mi sembra di aver visto qualcosa fuoriuscire dalla plastica, un liquido, come se quel cestino non fosse solo un pezzo di plastica, ma come se avesse dei fluidi vitali dentro di sè.
Questo è quello che ho detto, quando l’ambulanza mi ha portata via.
Questo, ma loro non mi hanno creduta. E ora qui, tra morbide pareti bianche, non ho più bisogno di un cestino. Non più.

BadGuy

Monnezza

Il vestito di seta bianco era sul letto, un semplice velo, quasi trasparente, dell’eleganza che solo i disegni più
semplici possono avere. Quasi galleggiando nella luce soffusa, si avvicinò al letto e indossò l’abito sulla pelle
nuda in modo che cadesse perfettamente a disegnare le sue forme. Acceso lo specchio olografico, Karima
spostò con una mano i capelli corvini e sorrise maliziosa alla sua immagine 3D, poi, con un gentile gesto
delle dita, fece ruotare la figura olografica ed osservò compiaciuta il tessuto che le incorniciava la schiena
e le accarezzava le gambe. Tutte le sue insicurezze sparirono per un attimo in quel sensuale vestito che la
faceva sentire finalmente donna e ripeté a se stessa che, davvero, davvero era stata fortunata .

Seguita dalla microcamera dello specchio olografico andò a spostare le lunghe tende di morbido nylon
lasciando che un fascio di luce accendesse la polvere sospesa nell’aria, avvolgendo l’ologramma di una
superficie brillante e illuminando il suo primo incredibile regalo di nozze.

Era un one-way magic- hole costruito in un prezioso mobiletto di mogano sovrastato da un piccolo vassoio
dorato. Si trattava, anche tecnicamente, di un modello del tutto particolare, che, invece di usare il sistema
standard di distribuzione, quello giù al porto, lasciava passare direttamente gli oggetti dalla terra!

In quel vassoio, una settimana fa, era comparso il secondo regalo: un anello d’oro con un rubino: due
materiali rarissimi che, se mai qualcuno gli avesse dato un prezzo, sarebbero probabilmente costati più del
castello stesso.

Dietro al mobiletto stava appeso un modesto calendario di carta riciclata con un cuore disegnato a
pennarello rosso sul 3 di dicembre: era il suo diciassettesimo compleanno; come diceva spesso a suo padre,
il pretore Hosnisayiddi Ibrahim, troppo tardi per sposarsi.

Scalza, come voleva la tradizione, uscì sulla scalinata esterna, si fermò e, lasciandosi accarezzare dal fresco
vento invernale inspirò percependo il familiare odore dei cantieri. Oltre le mura osservò il suggestivo
paesaggio di cangianti polveri cristallizzate, vivide come una distesa di ghiaccio al sole. Quello sarebbe stato
il suo regno. Per qualche istante lasciò i grandi occhi grigi liberi di inseguire i corvi che disegnavano neri
cerchi attorno alle torri maestose riflettendo su quanto stava per succedere.

Mancava poco più di mezz’ora, molti degli operai dei cantieri avevano avuto giornata libera, al piano di
sotto il castello sarebbe stato già in fermento e suo padre, ne era certa, era già lì a controllare che ogni
ingranaggio del meccanismo organizzativo facesse esattamente il suo dovere.

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La sala riunioni, all’ultimo piano del grattacielo Mediahole, non spiccava certo per originalità ed avrebbe
avuto probabilmente bisogno di una rimodernata. Era di forma ellittica ed un vecchio DVI, dispositivo di
visualizzazione interattiva, ora in gran parte spento, ne costituiva di fatto l’unica parete. Lo schermo era
interrotto solo dalla porta a scomparsa con il grosso pulsante rosso e dalla grande vetrata sull’immacolata
distesa di neve. Lo spoglio arredamento contemplava il grande tavolo centrale, le sedie, un one-way magic-
hole a forma di cestino e un appendiabiti con due pesanti cappotti.

Silvius sedeva semisdraiato su una delle sedie, con la cravatta slacciata, ma si trovava, visibilmente, in uno
stato d’animo tutt’altro che rilassato:

-Sono stanco Giulius, questo è un impegno gravoso per me, non ho più l’età per fare queste cose.

Giulius, nel raffinato smoking verde si levò gli occhiali sporgendosi su Silvius ed indicò la zona del DVI
accesa:

-Troppo vecchio per quella pollastrella là eh? E’ Sicuro? Guardi che vestitino!

- Dai non scherzare sempre, dovremmo davvero trovare qualcun altro..

-Ma no, è solo nervoso, è il giorno delle sue nozze, è normale!

-Non è questo, non è la prima volta, sii serio, lo sai.

-E’ questo che vuole? Sarò serio allora. Quest’impero ha della necessità diplomatiche ed economiche: ci
sono venti regioni su Monnezza. Venti. Molte sono allo stremo e alcune hanno tentato una rivolta. Grazie
al portale, la loro regione ha assunto un evidente ruolo di leadership e deve rimanere sotto il più stretto
controllo. Non possiamo mettere la testa sotto la sabbia: qui da noi la produzione è proporzionale ai suoi
scarti e se non si dà la possibilità di eliminare ciò che viene prodotto il mercato si saturerà di nuovo e noi
finiremo col culo per terra!

Silvius appallottolò la brutta del suo discorso e la gettò nel one-way magic- hole. Solo una sottile vibrazione
rese percepibile lo smaltimento.

- No, finiamo lì dentro, non per terra: abbiamo venduto l’anima al diavolo per averlo ed è finito tutto, tutto
lì dentro, da questo foglio ai miei processi, dalla spazzatura nelle discariche alle scorie radioattive, dalle
persone in eccesso alle bottiglie di plastica.

- Il one-way magic- hole ha salvato il nostro impero, non c’erano alternative, lo sa: avevamo esigenze
immediate e abbiamo ancora bisogno di denaro.

-Sì, il problema è che non c’è niente di magico, la materia non si crea e non si distrugge… al limite puoi
spedirla in un altro posto..

-O in un altro tempo… Ma non è questo il problema, il problema è che al di là del tunnel è nato un altro
mondo complementare al nostro. Monnezza lo chiamano i giornalisti, ma deve essere gestito, con la sua
religione magic-hole centrica, con il suo governo ombra…

- … e con le sue cazzo di principesse. lo so, ne abbiamo bisogno Giulius, ma questo non vuol dire che debba
anch’io passare i miei giorni in quella pattumiera!

-Si tratterà solo di qualche giorno ogni tanto, anche su Monnezza, tutti sanno che sei un uomo importante e
che hai mille impegni..

-Già troppi impegni, ma adesso è ora di andare, o faremo aspettare la sposa.

Ad un leggero tocco del pulsante una scritta verde “TWO-WAY” sembrò sollevarsi dalla superficie del DVI
mentre Giulius prendeva i cappotti dall’appendiabiti.

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Ḥosnisayyiddi era in cucina, con la tunica ufficiale e lo sguardo severo da pretore a tempo pieno, ma
Karima riconobbe subito la malinconia nascosta dietro l’abituale maschera paterna e corse ad abbracciarlo.

- Allora tesoro, come stai?

Karima sembrò formare un pensiero alternativo per un secondo, ma poi :

-E’ un uomo saggio e affascinante papà, è così simpatico quando racconta le sue storielle col suo buffo
accento terrestre, guarda, ho messo l’anello che mi ha mandato!

- Avrai grandi responsabilità, Karima, e dovrai saper usare al meglio le abbondanti risorse che ci giungono
dalla Terra.

- Già, ora però sto solo morendo di fame: ieri non sono riuscita a mangiare niente e sono a dieta da due
settimane!

Ḥosnisayyiddi, prendendo un vassoietto incelofanato dalla dispensa:

- Vuoi una pera?

- Me la sbucci tu papà?

Il pretore, aperto il pacchetto, pulì due pere mature con un panno e dopo averle divise in quattro spicchi
iniziò a sbucciarle per lei come aveva sempre fatto da quando era bambina, poi porgendole una fetta
matura e zuccherina:

- Assaggia questa principessa, scade tra due giorni. Quest’altra oggi. Non solo si possono mangiare
benissimo, sono squisite… Ma adesso andiamo o ti farò fare tardi!”

Karima entrò nella cappella stringendo la mano del padre, era la sala più ampia e importante del
castello, da bambina ne aveva sempre avuto un misto di paura e rispetto: ogni volta che accadevano
avvenimenti eccezionali c’era sempre qualcuno che usciva di li per dirgli cosa dovevano fare, ma la cosa più
impressionante era decisamente vederli tornare indietro sulla Terra.

Visto il suo ruolo a corte era abituata a vedere oggetti di ogni tipo comparire dai normali one-way magic-
hole: addirittura una volta, ai grandi cantieri Mediahole giù al porto, aveva visto la carcassa di una nave
uscire da uno degli enormi distributori principali, ma solo in quella cappella aveva visto persone ed oggetti
risalire magicamente la corrente del tempo verso la Terra.

L’ambiente, silenzioso, era debolmente illuminato da alte feritoie e dal fascio di raggi laser ad alta potenza
che chiudevano il portale. Due file di panche erano già gremite di invitati e, nel corridoio centrale, grosse
riproduzioni di animali terrestri, ormai da tempo estinti, digrignavano i denti ricordando ai fedeli quanto
poteva essere spietata la natura. Il grande pavimento di plexiglass nero piegava in leggera discesa verso il
portale temporale, dando a tutti la possibilità di assistere indisturbati all’avvenimento.

Quando dalla Terra fu abbassato il fascio di laser l’imponente portale parve fluttuare leggermente sul suo
altare in un sommesso ronzio, quasi che tutto quel legno tempestato di gemme potesse balzare in piedi da
un momento all’altro ed inghiottire l’intero castello.

Entrò prima Giulius, avanzando spedito verso l’officiante, con la ventiquattrore in mano e i due soprabiti
sull’altro braccio. A Silvius, invece, appena uscito dal portale, quasi si piegarono le gambe. L’odore dell’aria,
aspro da togliere il fiato, e il caldo asfissiante lo avevano colpito come un pugno allo stomaco. Cercando di
riacquistare lucidità focalizzò Ḥosnisayyiddi nell’istante in cui lasciava la mano della principessa.

Karima era esattamente quello che sperava: gli occhi di un cerbiatto impaurito e il corpo giovane e perfetto
che aveva visto dal DVI, sorrise compiaciuto e – Mi ci abituerò, anche stavolta – si disse semplicemente.

Lei lo vide entrare ed improvvisamente era vecchio. Non anziano, non saggio, come aveva creduto, ma
semplicemente, umilmente, vecchio. Altrettanto improvvisamente il suo regno e le sue responsabilità
furono avvolte da una densa nebbia, mentre la mente vacillava al pensiero che forse sarebbe dovuta
fuggire e che anzi nemmeno avrebbe dovuto essere li…

Ma…

O era forse era solo quello che passava per la testa di ogni ragazza al momento di salire sull’altare. E poi
tutti sapevano che entrare nel portale sarebbe stato fatale, che solo chi veniva dalla Terra sarebbe potuto
tornarci, eppure chi usciva da quel portale lo chiamava semplicemente two-way magic-hole! Avrebbe solo
voluto essere sola, che tutto si fermasse…

E agì senza pensare, si piegò sulle gambe agili e saltò, sotto lo sguardo attonito degli invitati, verso
l’ingresso del portale, mentre lui, ancora a disagio per il caldo, fissava stordito la figura che spariva.

Fuori dal grattacielo la neve continuava a cadere silenziosa. Karima nemmeno si era accorta del passaggio
e, solo per un istinto di sbattere la porta alle sue spalle, aveva premuto quel grande pulsante rosso
negando il ritorno ai possibili inseguitori. Ma adesso, in ginocchio davanti alla vetrata, con gli occhi grigi
colmi di lacrime e stupore, non sapeva far altro che guardare la neve.