Ho finito il mio workout di 28 giorni con la mia coreana assassina del cuore, Chloe Ting. Nessun risultato miracoloso, solo tanta fatica e sudore. Un chiletto perso, ma girovita sicuramente più fine. Ho un fisico del menga, comincio a ingrassare da gambe e chiappe e quando arrivo alla pancia, diversi kg più avanti, ormai è troppo tardi e per perderli devo faticare (in passato smettendo di mangiare ma stavolta non ha funzionato). A volte in passato mi hanno recriminato il fatto di essere pigra, nein, ho costanza ma per mostrare questa mia dote servono degli ingredienti fondamentali, come ad esempio la disperazione. La stessa che mi ha portato a diventare sviluppatrice Java perché di stare al telefono non ne potevo più. Dato che non sopporto chi si lamenta senza almeno provare a cambiare la propria condizione (mentre chi prova e non riesce ha tutte le giustificazioni del mondo per imprecare, IMHO) prima di lagnarmi le provo tutte. Anche andando a Benevento per una Academy su Java. Detto questo domani comincio un workout assassino di 14 giorni un pochino più pesantuccio.
Io e Cliff stiamo leggendo la saga di Blackwater. Siamo al terzo libro e finalmente accade qualcosa. Devo dire che i volumetti sono piccoli e scorrevoli, per ora li stiamo leggendo su ebook reader ma viste le edizioni davvero carucce vorremmo acquistarli cartacei. A volte finisce prima lui, a volte prima io. Questa volta sono rimasta indietro io perché attendevo che lui finisse il volume secondo e quando lo ha finito non mi ha avvertita di aver cominciato il terzo. PUSILLANIME! Ma in pochi giorni sto rimediando, peccato che...
mi sono fatta un regalone che mi è arrivato ieri. La tanto amata e desiderata Steam Deck. Così oggi ho finito Gris, dopo anni, e riprendo a giocare avendo una console che mi permette di usarla su letto o divano. Occhio però pesa. Se la usate a letto state seduti, se vi scivola in faccia potrebbe cambiarvi i connotati. La Steam Deck ha su una distro Linux quindi, miei cari e piccoli smanettoni, è una console ideale per tante varissime cose. Oltre a quello mi sono presa su Aliexpress, Miyoo, esteticamente sembra un vecchio gameboy, in verità puoi installarci degli emulatori per una miriade di giochi da quelli del gameboy classico e fino alla ps1. Inutile dire che per entrambe le cose, tutta colpa del mio adorato Cliff. Il Miyoo (mini plus) l'ho preso inizialmente per mia sorella (la quale ha smesso qualsiasi interazione col resto del mondo per giocare a SuperMario) ma quando l'ho provata mi sono accorta che è davvero una goduria e mentre la Steam Deck si può usare nelle lunghe pause o la sera se non si ha voglia di mettersi sulla scrivania e accendere il PC, Miyoo puoi accenderlo anche in bagno durante le sedute di gabinetto, in pausa pranzo, in attesa che arrivi il tram, sul tram, smadonnando mentre si cammina per km avendo perso la fermata del lavoro per l'ultimo combattimento di Tekken...
Mi è venuto in mente di riprendere l'università, e l'unica facoltà di Scienze Biologiche possibile da fare online è eCampus, ci andrò a parlare lunedì ma le recensioni li spacciano già per truffatori (bene ma non benissimo). Pensavo a Scienze Biologiche per capire se è possibile recuperare parte degli 11 esami dati 20 anni fa (secondo eCampus probabilmente sì) ma dato che costa davvero tantissimo, mi sono già mezzo informata, l'alternativa è la facoltà di psicologia o a Perugia o a Urbino. Propendo per la seconda dato che quando all'università di Perugia ho inviato una richiesta di informazioni via email, ben articolata, loro mi han risposto con un link che sì, va bhe, grazie al ca$$o, lo avevo già letto.
Purtroppo, nel fare tutte queste cose, non sto suonando il violino. Se mi leggesse il mio Sensei brontolerebbe assaje, ma noi saremo bravi e non glielo diremo. Ora devo dimagrire e leggere e giocare. Tra qualche giorno farò rientrare nella mia routine quotidiana anche quel meraviglioso strumento, che mi sopporta e sopporta ancora la mia incapacità di suonarlo decentemente. Scusami.
La Feltrinelli ha deciso di scontare alcuni saggi Cortina del 20%: chi aveva detto "No questo mese è l'ultima spesa che faccio" parlando della Steam Deck e ha affrontato con nonchalance il checkout del sito de La Feltrinelli? Non faccio nomi, perché sono tutte solo supposizioni.
Canzone del giorno: I Got YouThe White Buffalo (per il metallaro del mio cuore)
Ecco perché stanotte ero abbracciata al cuscino dove di solito sei tu. Ecco perché non tolgo mai il secondo cuscino, mi dà l'impressione di poter allungare la mano e trovarti. Posso anche sentire il tuo respiro se mi concentro, nonostante il caos che, ora che le finestre sono aperte, arriva da fuori, dalla strada.
Questa notte qualcuno ha accelerato di colpo facendo un rumore fortissimo e mi sono svegliata di colpo, spaventandomi. Ti ho pensato: tu non avresti fatto mezza mossa. E vedendoti così sereno, in quel sonno profondo senza sogni, mi sarei subito tranquillizzata.
Sopporti la mia insana passione per gli horror, anche se ogni tanto esclami "Ma qui non esplode niente!", non hai mai da ridire sulle mie scelte ma mi appoggi, anche se sembrano scelte un po' bizzarre. Non litighiamo mai, e anche se qualche volta capita di chiuderci nei nostri mutismi, sei sempre pronto ad ascoltare. Non ho mai sentito una tua parola fuori posto, una minima mancanza di rispetto nei miei confronti, nessuna sfumatura negativa. Cammini pianissimo e mi devo ancora abituare, ma so che ogni tanto vai più veloce e che lo fai per me. Adoro starti vicino anche solo quando giochi ai videogames, mentre leggo uno dei 16 libri attualmente in lettura. Sopporti anche le mie lamentele su quanto sono ingrassata e mi fai comunque sentire sempre bella.
Sogno mille momenti così, pieni di gioia e momenti che solo tu puoi creare.
Divergevano due strade in un bosco ingiallito, e spiacente di non poterle fare entrambe uno restando, a lungo mi fermai una di esse finché potevo scrutando là dove in mezzo agli arbusti svoltava. Poi presi l’altra, così com’era, che aveva forse i titoli migliori, perché era erbosa e non portava segni; benché, in fondo, il passar della gente le avesse invero segnate più o meno lo stesso, perché nessuna in quella mattina mostrava sui fili d’erba l’impronta nera d’un passo. Oh, quell’altra lasciavo a un altro giorno! Pure, sapendo bene che strada porta a strada, dubitavo se mai sarei tornato. lo dovrò dire questo con un sospiro in qualche posto fra molto molto tempo: Divergevano due strade in un bosco, ed io… io presi la meno battuta, e di qui tutta la differenza è venuta.
È una delle 5 Pseudoglomeris magnifica (blatte, ma molto molto belle) che ospito da Aprile. In effetti ci sono stati tanti arrivi oltre alle bestione che ho già.
Comincio oggi la saga di Blackwater, perché non avevo proprio nient'altro da leggere in questo periodo.
Lo avrò ripetuto un miliardo di volte al sensei. Da quando stavo a Benevento e le lezioni a distanza erano difficoltose, a quando, rientrata in gianduiottolandia non mi sentivo in grado: avevo perso diversi mesi di lezioni in presenza e molte le avevo saltate.
Il sensei avrebbe voluto farmi partecipare ai saggi di entrambe le sedi (rispetto all'anno scorso quest'anno ho scelto una sede più vicina e comoda, che l'anno scorso non era disponibile). Nel saggio della mia scuola avrei suonato il tema di Game of Thrones, mentre nella sede principale avrebbe voluto farmi fare la versione semplificata di Experience (Einaudi) ma non c'è semplificazione che tenga per quel brano: e alla fine ha tirato fuori dal nulla la Robin Hood Suite. 4 pezzi piccini da suonare tutti insieme (6 violini, di cui 3 al secondo anno, una al terzo, altri due che vengon dal conservatorio e si vede che ne sanno) accompagnati dal pianoforte.
Quando finalmente mi ero decisa scopro che il saggio sarebbe stato in orario lavorativo. Non sarebbe stato possibile per me partecipare, tranne per il fatto che il saggio sarebbe stato venerdì (ieri, 19 maggio) e io il venerdì lavoro sempre da casa. Mi avrebbe fatta intrufolare in una delle aule per permettermi di lavorare lì e una volta terminato il mio orario, via al saggio.
E dopo un po' di prove quasi tutti insieme (la maggior parte il solito gruppo di noi 4 ragazze) e una sola prova generale con piano e gli altri violini ganzi (quelli che avrebbero coperto le nostre ma soprattutto le mie stonature) arriva il venerdì.
Alle 13, appena iniziata la pausa pranzo, parto da casa per andare alla scuola. Diluvia e il bus è pieno di ragazzini brufolosi appena usciti da scuola. Io ho il mio bambino (il violino ovviamente) e lo zaino con il pc del lavoro e la gonna lunga che mi metterò lì. Ho evitato di metterla da casa per non sporcarla con pioggia, fango ecc.
Il ginocchio mi fa ancora un sacco male, ed è faticoso fare il pezzo a piedi dalla fermata alla scuola, ma arrancando un po' ce la faccio. Avrei preso l'antinfiammatorio che mi sono autoprescritta, nel pomeriggio, in modo da avere un po' di autonomia tra lo stare in piedi e il resto.
L'aula in cui mi ha detto di entrare il sensei è piena di percussioni ed è fighissima. A una certa decido che è ora di mettermi la gonna, sono ormai le 16.30 quasi. Me la infilo sopra i pantaloni che dalla finestra che da' sull'esterno sono abbastanza visibile e non voglio fare uno spogliarello involontario, mi tolgo gli scarponcini, mi sfilo da sotto la gonna i pantaloni (che sono larghi e comodi) e solo in quel preciso istante, con la collega in linea su teams e piegata in avanti per sistemarmi meglio, giro lo sguardo e il sensei è in aula in silenzio che attendeva mi accorgessi di lui.
Va bhe, mi rimetto gli scarponcini, muto al microfono, lo saluto e si continua. Nemmeno alle 17 entra una ragazzotta che ha ricevuto istruzioni di arrivare in aula e succede che in men che non si dica sono sfrattata da lì: devono fare le prove. Mi metto in corridoio ma si sentono i rumori di tutti gli strumenti di tutte le sale e stare in call diventa un po' complicato. Quest'anno non ci sarà nessuno a filmare, poi però mia sorella, facendomi una sorpresa, decide di venire.
Emozione, maledetta emozione.
Che poi ogni tanto si sente un mezzo fischio, sappiate che sono io, era andato tutto bene alle prove (tutto o quasi) ma ovviamente...
Il sensei è una persona di rara empatia, e adoro il mio cazzo di violino
Dopo il saggio il consueto e attesissimo rito del pub. Si potrebbe anche dire che faccio il saggio solo per andare a mangiare tutti insieme, ma mentirei non poco perché alla fine quel piccolo brivido adrenalinico tanto male non fa. Inoltre, visto che pago profumatamente un terapeuta per aiutarmi a gestire meglio la mia vita, ogni tanto mi capita anche di seguire i suoi suggerimenti, come quello di fare sempre i saggi, o eventuali concorsi che mi si presenteranno, perché anche avere uno scopo (studiare per arrivare a fare qualcosa) ha un suo perché. Inoltre ho scoperto che suonare con gli altri mi piace. Vorrei essere più brava? Certo! Vorrei saper già fare il vibrato? Ma OVVIAMENTE.
Ma mi accontento per questo presente di essere riuscita ad andare avanti, a continuare nonostante il periodo di Benevento, il nuovo lavoro, a volte la poca voglia, la frustrazione (spesso) di non riuscire. Il prossimo anno sarà l'anno dell'impegno (e del vibrato, of course), per ora sono felice così. E magari il prossimo anno riuscirò anche a suonare qualcosa con Cliff.
Invece, oggi ho deciso di passare la mia giornata al pronto soccorso. Il ginocchio non mi da' tregua, così ho passato allegrissime 5 ore (ma ho letto tanto, sapendo di dover aspettare tantissimo mi sono portata sia il libro cartaceo che l'ebook) insieme a persone che, come me, chi più ma anche chi meno, zoppicavano.
L'allegra dottoressa, quando le ho detto che mi ero fatta male correndo e probabilmente vedendo il mio fisico (che è quello di una che corre perché il paninaro "Mimmo" sta per chiudere e ha voglia di un panino con salsiccia e crauti) ha esclamato "Ma ha corso per prendere il bus?".
Il responso è che ho la rotula molto mobile, va dove cazzo je pare e femore e rotula han litigato. Antinfiammatorio e fisioterapia e passa la paura. Ovviamente tutore.
Purtroppo avendo aspettato 5 ore seduta non avevo nemmeno male, mi avessero visitata quando ero arrivata, dopo la camminata per la metro, il tragitto in piedi sul mezzo e la camminata dalla fermata della metro al pronto soccorso, allora sì che avrebbero capito.
Sul quando potrò riprendere a correre (e ricominciare tutto da capo dato che sono ferma da quasi due settimane) si stende un velo ignoto. Secondo la dottoressa dovrei prima rinforzare il quadricipite "magari con la bicicletta" - non ci so andare - "allora il nuoto" - e sticazzi pure.
Nel dubbio brindo con un calice di bianco. Farò esercizi di qualche tipo a casa e vediamo come va.
L'elicottero alle 13 in effetti mi spezza tremendamente la giornata (ah-ehm, sì, potete usarlo cme mezzo di trasporto ma occhio che non avrete a disposizione il ritorno) ma non avendo la colazione inclusa nell'airbnb e non essendoci niente nei paraggi, decido comunque di andare al mattino in aeroporto. Non mi ero resa conto della salita che c'è da fare per andarci e che con lo zaino pesante non sarà semplice quando dovrò rientrare in Italia e andare in aeroporto. Quindi imprecando contro il mondo, ormai una cosa che faccio abitualmente da quando sono in viaggio, con la speranza di non incontrare persone che mi possano capire (dovrò ricordarmi di smettere una volta tornata), arrivo completamente sudata in aeroporto. Ci sarà un bar, un negozio, qualcosa.
Niente: al pari dei servizi di una stazione ferroviaria simil Torino Stura. C'è un distributore automatico di bevande calde, mi sparo un caffè americano e attendo. Oltre al WiFi gratis ci sono le prese per caricare il telefono e ne approfitto per cazzeggiare fino alla partenza. Dopo aver spippolato con la macchinetta per il check-in automatico senza successo, scopro chiedendo a caso al gabbiotto delle Atlantic Airways che mi tocca aspettare lì dove sono e che mi avrebbero chiamata, intanto mi tocca guardare un filmato sulla sicurezza in elicottero.
Come agganciare le cinture, cosa fare in caso di emergenza, ecc.
Non sto più nella pelle quando il ragazzotto trasporta me e altre due persone con un minivan all'elicottero. Penso una delle cose più belle mai fatte. Indossate le mie cuffione giallo/verde fosforescente, chiusi i portellone e con tutti gli scossoni mi godo questi dieci minuti di leggerezza fino a Tórshavn.
A un certo punto l'elicottero scende, sembra siamo arrivati ma siamo nel nulla. Davvero davvero nel nulla. Penso, ok, qui tutto sembra nel nulla, magari 200 metri più in là c'è una strada principale, e mentre faccio tutti questi ragionamenti e l'elicottero ormai è atterrato, mi sgancio la cintura convinta di dovermi lanciare in una nuova avventura ma non appena salgono altre persone mi accorgo che è una sorta di fermata intermedia. Sorrido imbarazzata e rimetto la cintura.
Non è molto diverso atterrare a Tórshavn, non sembra per nulla una piattaforma in centro città ma suvvia, Google maps in aiuto, gambe in spalla e procedo.
Dopo aver fotografato il porto, il faro, essere andata all'ormai mio amico Burger King a mangiare e a ricaricare il telefono, essere andata a fare la spesa (per lo più acqua, biscotti, succo di frutta e noodles precotti), aver trovato un ATM per prelevare le corone faroesi (finalmente) e aver fotografato la parte vecchia della città mi rendo conto che è tutto chiuso. Il centro del turismo per chiedere info sul biglietto del bus cumulativo, ma anche gli sportelli alla stazione dei bus. Del resto è domenica ed è sì la capitale delle isole, ma stiamo parlando comunque di 21 mila anime. Mi riposo un po' al molo, vicino alla fermata dei bus, e mi rilasso. Ho il bus alle 17.30 e mi ci vuole circa un'oretta per tornare.
L'autista è così gentile da lasciarmi dove voglio, propendo per l'incrocio più vicino all'appartamento. Dal piano di sopra, una delle inquiline, la ragazza che non aveva ricevuto indicazioni della stanza, mi saluta.
Appena entrata chiedo al proprietario se ha un phon e mi dice che c'è ma nel bagno del piano di sopra, così salgo e ne approfitto per parlare con la ragazza che scopro essere bielorussa ma da 10 anni sta a Perugia per cui parla perfettamente italiano. Mentre salutiamo una ragazza, delle cui vicissitudini mi parlerà un sacco (aveva preso la bici perché voleva fare tutto in bici ma poi si è resa conto essere impossibile così ha noleggiato una macchina spendendo tantissimo e proprio oggi sono andate in giro insieme guardando la qualunque) chiacchieriamo del più e del meno e presto si unisce anche il proprietario, un ragazzo di 32 anni, che ci offre un paio di birre prese dal suo frigo e cerca di sistemare un problema al WiFi del mio telefono. Gli raccontiamo del lockdown passato in Italia e non riesce a concepirlo, inoltre dichiara di non essere vaccinato (ma come? Sta a contatto con un sacco di gente). In effetti qui, come a Copenaghen, sono l'unica con la mascherina nei luoghi chiusi tanto che al Burger King sicuramente una bambina ha chiesto alla mamma perché tenessi la mascherina (ho capito solo mask, che è universale), e chissà che si sono detti in questa lingua tanto bella quanto incomprensibile. Dopo innumerevoli chiacchiere la ragazza, Milla, mi dice che ha in programma una gita in barca il mattino seguente ma ci stava ancora pensando perché costa molto, più di 30 euro, per cui ancora non sapeva, ma se volevo potevo unirmi, avremmo solo dovuto prendere il bus alle 7.50 (il proprietario ci indica la fermata del bus 300 dalla finestra). Le dico che ci penso, tanto sarei passata a salutarla al mattino perché sarebbe stata l'ultima notte, questa, poi si sarebbe spostata a Tórshavn. Mi doccio, mi asciugo i capelli, le riporto il phon e muoio letteralmente a letto.
Al piano di sotto la stanza accanto all'ingresso viene occupata dalla coppia padre/figlia che era con me sull'elicottero. Decisamente una bizzarra coincidenza ma forse non troppo. Scopro che questa casa è usata come ultima e/o prima fermata, data la vicinanza all'aeroporto.
P.S. Personalmente non capisco i popoli nordici, il proprietario sembra prendersi confidenza. Nell'indicarmi la fermata del bus quasi mi abbraccia (ok mi appoggia solo la mano sulla schiena), in capo a un paio di giorni mi dice che mi avrebbe accompagnata all'unico ristorante in zona e solo lì capisco che mi ci accompagna letteralmente e poi non resta, ecco - insomma, non sono proprio in grado di capire i segnali, ma questa è un'altra storia.
Oggi parto finalmente per le isole Faroe. Le mie considerazioni su questa città sono le stesse. È bella ma non la sento mia.
Ci sono alcuni posti di cui mi sono perdutamente innamorata e Copenaghen purtroppo non è tra questi. Forse per una storiella va anche bene, ma non un amore intenso e intimo.
In ordine mi sono invaghita di Perth (ma era il mio primo viaggio molto molto lontano, quindi rivedendola adesso potrei non riconoscerla), di Berlino (a primo occhio no, mi chiedevo che cazzo fosse quell'accozzaglia di palazzoni quasi fatiscenti, quell'odore di ferraglia, quella lingua così dura. Ma mi è bastato poco per capire che la sua bellezza è proprio quella, i palazzoni socialisti, la sua storia, la divisione ancora percepibile tra Est e Ovest), di tutto quello che ho visto in Madagascar (tanto da avere i lucciconi sull'aereo del ritorno).
Copenaghen no. Ma c'è qualcosa che mi è piaciuto molto di lei, come quando incontri un uomo con cui non scatta la scintilla ma ha quel qualcosa che ti piace a tal punto da dirti che potreste diventare amici a lungo e magari rivedervi, un giorno: i canali, i piccoli moli, i posti dove rilassarsi e perdere tempo. Ed è quello che ho fatto oggi, sono andata al cubo nero, la biblioteca reale, mi sono seduta in riva al canale e ho letto. Io con lo zainone, la borsa, il sole in faccia, il vento fresco.
Tornerò in Italia e già lo so, i seguaci della città che già l'hanno visitata mi chiederanno "Ma la sirena l'hai vista? E questa chiesa? E questo monumento". Ovviamente no. Non ho visto nulla di tutto questo. Sono andata nei parchi, al cimitero, mi sono seduta al molo, ho letto, mi sono rilassata.
E poi è arrivata l'ora di ripartire. Inutile dirlo, il viaggio per le Faroe mi emoziona.
Le ho conosciute per caso nel 2014, nemmeno sapevo della loro esistenza. Ma nel 2015 sapevo ci sarebbe stata un'eclisse solare totale visibile al largo di queste isole. Avrei voluto vederla ma le strutture ricettive erano già occupate (probabilmente da anni): questo però mi fece informare e anche a distanza, mi ci innamorai. Le Faroe sono quell'uomo che ti scrive cose bellissime, ti chiama con quella sua voce suadente e tu già sai che non appena lo vedrai te ne innamorerai. Non può essere altrimenti. All'aeroporto scrivo (e mangio, cosa che sta diventando la mia occupazione principale), ricarico il telefono, controllo il gate. E mi imbarco. Noto già che ci sono diversi italiani (la cosa mi irrita: ci facciamo riconoscere, siamo caciaroni, abbronzati in modo osceno - sì sì vede che sei stato al mare, mancava solo che te lo tatuassi insieme ai tuoi finti maori - parliamo ad alta voce e ridiamo in modo sguaiato) e tanta gente che mi chiedo "Ma davvero così tante persone vanno alle Faroe?". Cioè ci sono alcune isole con 50 abitanti e l'aereo aveva all'interno più persone degli abitanti di quelle isole.
Il volo dura due ore e un quarto, ma le Faroe sono un'ora indietro rispetto all'Italia. Non appena scendiamo sotto la coltre di nubi dense già vedo scogliere bellissime, verde ovunque e un cielo spesso e grigio. È così bello che non so descriverlo e nemmeno le foto rendono.
Mentre cammino su questa sorta di strada statale diretta all'appartamento che dista 20 minuti dall'aeroporto (da cui domani prenderò l'elicottero che ho prenotato per un breve volo, sì, l'elicottero, wop wop woop) non posso fare a meno di guardare e filmare tutto quello che trovo. Verde ovunque, il molo di Sørvágur, le pecore che mi guardano strano, casette con il tetto di erba che si mimetizzano con l'ambiente circostante. Guardo il cielo così spesso, queste nubi che sembrano solide e basse e penso ad Asterix secondo il quale i Galli hanno paura di una cosa sola: che il cielo gli caschi sulla testa. Questo penso quando guardo questo cielo, che possa cascare sulla testa da un momento all'altro. Arrivo all'appartamento (noto che dietro di me ma molto distante c'è un'altra persona che fa la mia stessa strada, forse un altro ospite della casa) e provo a bussare ma sembra non ci sia nessuno. Apro la porta e ci sono le istruzioni per la mia stanza. Il bagno è enorme e pulito e così la cucina. La stanza, bhe. Accendo solo il riscaldamento (da brava pirla, pensando non facesse alla fine così tanto freddo non mi sono messa il piumino e avevo solo il giacchino antivento quindi mi sono presa un po' di fresco, diciamo così. Ci sono almeno 10 gradi in meno rispetto a Copenaghen) e mi sistemo le cose. Domani pioverà quasi tutto il giorno: andrò a Tórshavn (il porto di Thor, e ho detto tutto) e girerò e farò foto lì. Poi deciderò giorno per giorno cosa fare ma per me posso semplicemente sedermi qua fuori a guardare e sono contenta così.
Considero questi pochissimi giorni una sorta di ricognizione perché auspico di tornare l'anno prossimo.
Ah: scopro una volta atterrata che internet qui devo pagarlo. Le belle sorprese. Per fortuna all'aeroporto con il WiFi gratuito mi ricarico un po' la scheda ma conto di fare a meno di internet. Non è male, del resto volevo isolarmi, rilassarmi, stare con me stessa.
Mentre mi ambiento in stanza sento bussare alla porta. Una ragazza che mi chiede informazioni perché il proprietario della casa non le risponde. Scopro così che capisco cosa dice e riesco anche a parlarle. Se stessi via almeno un'altra settimana sarebbe perfetto, potrei chiacchierare con lei che come me è da sola, ma penso che comunque sono qui perché volevo stare con me stessa - avessi voluto compagnia probabilmente sarei rimasta a casa o avrei viaggiato con qualcuno.
Penso alla vecchietta all'aeroporto di Varsavia che mi ha detto quanto sono coraggiosa a viaggiare da sola e improvvisamente il complimento mi sa di sessista. Solo in quanto donna sono coraggiosa? Scommetto che a un uomo non lo avrebbe detto.
Per me forse è stato davvero coraggioso ma non per il viaggio da sola in sé, semplicemente per la mia scarsa conoscenza dell'inglese. Per l'anno prossimo vorrei superare altri limiti: intanto sapere meglio l'inglese e tornare qui noleggiando un'auto. Voglio girare le isole e fermarmi in posti non troppo battuti. Voglio liberarmi di alcune paure e di tare mentali; una, banale, la sto già superando e se lo scrivo verrà da ridere. In tutti i miei viaggi passati non ho praticamente mai disfatto le valigie. Forse è l'idea di avere un bagaglio pronto che se le cose si mettono male posso sempre andar via, la paura di mettere radici, l'idea che tutto ciò che è stazionario sia male. Qualcosa è seriamente cambiato in me, e non posso che esserne fiera.
Mi sarei immaginata qualsiasi scenario in questa vita, ma mai di vivere nel bel mezzo di una pandemia.
Non immaginate scene alla Sliding doors?
Io sì, cosa sarebbe capitato se, ad esempio, al momento della chiusura della Lombardia io mi fossi trovata a Torino?
Torno un attimo indietro: dato che ho usato spesso questo spazio come diario personale in cui ho scritto davvero di tutto, visite mediche, cose buffe capitate, colloqui di lavoro, racconti, sfoghi, ecc, non posso evitare di scrivere un piccolo appunto su una pandemia.
Sì, una pandemia.
È cominciato tutto verso fine dicembre 2019, credo. Lo spillover, il salto di specie del virus, ora identificato come SARS-CoV-2 (ma più comunemente conosciuto come Coronavirus - termine generico che indica un gruppo di virus a cui appartengono anche il virus del raffreddore e dell'influenza) è partito, pare, dalla città cinese di Wuhan. Molto spesso cominciano così, nei mercati in cui viene venduta e/o consumata carne di animali selvatici. Saranno stati i soliti pipistrelli? I serpenti? Chissà.
Fatto sta che i primi sintomi di un certo tipo di polmonite virale sono stati rinvenuti tra le persone che lavoravano in questi mercati che vendevano carne fresca di bestie selvatiche.
Il virus in breve ha fatto il giro del mondo. La malattia provocata dal virus (Covid-19) è stata presto riscontrata in altre zone del mondo e l'Italia è stata duramente colpita.
La cosa buffa è che ci sentiamo sempre estranei a queste cose, soprattutto perché spesso capitano dall'altra parte del mondo. Penso alla reazione che potrebbe aver avuto un italiano medio di fronte all'epidemia di Ebola avvenuta in Africa credo nel 2014-2015 (Tanto qui non arriverà mai).
La reazione iniziale al Covid-19 è stata più o meno questa: è un influenza, che me frega? Abbiamo continuato tutti a uscire, io stessa, a fare aperitivi con gli amici, a ironizzare e scherzarci su, a bere Corona, a pensare di preparare cartelli con su scritto #guariremotutti.
Presto hanno messo in quarantena piccole realtà in cui nuovi focolai stavano esplodendo. A Codogno (che manco sapevo dove cazzo stava) ad esempio, le strade erano bloccate. Non si entrava né si usciva.
Da qui arriviamo al weekend del 7 marzo. Sarei dovuta tornare a Torino l'8 marzo, domenica, quando sabato sera nella chat di lavoro mi scrivono che la Lombardia verrà chiusa.
Ero (e sono) in Lombardia.
In qualche modo alcuni giornali erano venuti in possesso della bozza del decreto che sarebbe uscito il giorno dopo e, a quanto pare, avevano intenzione di bloccare i movimenti da e verso la Lombardia a meno che non si fosse trattato di rientro al domicilio, di situazioni di lavoro oppure di salute.
Ero stata invitata a partire quella sera stessa ma ho fatto bene a non farlo. In stazione, presi dal panico, si sono riversate migliaia di persone che sono andate ad affollare i treni spargendo l'epidemia un po' ovunque (anche al Sud che fino ad allora era relativamente tranquillo).
Il giorno dopo, a decreto ufficializzato, ho deciso di non rientrare a Torino. Scelta un po' forzata dal fatto che Madre ha più di 70 anni e tornando l'avrei messa a rischio.
Quindi, scuole chiuse fino al 3 aprile e la follia della gente corsa al supermercato a fare incetta di generi alimentari. Seguono a ruota sui vari social le foto degli scaffali vuoti ai supermercati (tranne per le penne lisce, quelle non se l'è inculate nessuno, che cazzo a me piacciono un sacco le penne lisce). Il giorno successivo tutta l'Italia viene chiusa. Nessuno spostamento da e per nessuna località, necessità di autocertificazione per eventuali spostamenti (concessi solo per spesa, emergenze, lavoro e rientro a domicilio). Spesa uno per volta e a distanza di sicurezza di un metro (con code immense fuori dai supermercati per le grandi città). Niente assembramenti. Niente vicinanza. No in macchina in due. Le mascherine sono finite. Controlli a gogò sulle persone in giro. Sanzioni per chi fosse risultato con autocertificazione falsa.
L'apocalisse.
D'improvviso tutti in giro con la mascherina chirurgica (but, i virus hanno bisogno di filtri migliori e quindi non serve a un cazzo. La mascherina protegge dai batteri ma ai virus gli fa un baffo). Qualcuno con i guanti in nitrile.
Un buon romanzo distopico lo avrebbe già predetto (peccato non aver terminato e pubblicato il mio racconto cominciato più di un anno fa in cui parlo di un futuro - immaginario? - in cui non si può uscire di casa se non con la maschera antigas). Il contenimento è attuato, ogni giorno ci viene tolta un po' di libertà individuale (sì, è vero, ma concordo sul fatto che sia necessario). Ovviamente non si può più viaggiare.
Del va e vieni delle sbarre è stanco L'occhio, tanto che nulla più trattiene. Mille sbarre soltanto ovunque vede E nessun mondo dietro mille sbarre. Molle ritmo di passi che flessuosi e forti Girano in minima circonferenza, è una danza di forze intorno a un centro ove stordito un gran volere dorme. Solo dalle pupille il velo a volte S'alza muto - . Un'immagine vi pènetra, scorre la quiete tesa delle membra - e nel cuore si smorza.
Noi siamo fortunati: oltre a essere in due abbiamo mille cose da fare e mille passioni. Proprio ieri abbiamo scattato delle foto a pellicola in casa e le abbiamo sviluppate, scansionate, catalogate. Sto leggendo tantissimo, sto seguendo un corso di javascript, suono (e a tratti scrivo).
Ma leggo notizie raccapriccianti sull'aumento delle violenze domestiche, di depressione, e anche nelle varie chat di Whatsapp la situazione non è delle migliori.
Ogni tanto videochattiamo tra amici, ci raccontiamo cosa cuciniamo (perché sì, ormai cucinare è uno dei pochi piaceri concessi e ci si impegna parecchio in questo senso).
Ma chi è il virus della SARS-Cov-2? Non se ne sa molto se non cose che tutti possono apprendere facendo una piccola ricerca. Intanto fa parte della famiglia dei retrovirus e del gruppo dei Coronavirus che come scrivevo poco più su provoca problemi respiratori. Dei coronavirus fanno parte le varie influenze stagionali, il raffreddore, e anche sindromi simili già vissute come la SARS-CoV.
Cosa sono i Coronavirus? Virus a RNA. I virus a RNA rispetto a quelli a DNA non hanno un enzima, la DNA polimerasi, che aggiusta le coppie di basi azotate in caso di errori (anche perché sono a catena singola e non a doppia catena, anche se esistono virus a RNA a doppia catena). Quindi i virus a DNA mutano di meno, perché si autocorreggono. I virus a RNA sono a singola catena, non hanno un enzima che li corregga perché non hanno "coppie" sbagliate quindi mutano più spesso. Ecco perché l'influenza stagionale è sempre diversa, muta ogni anno e ogni anno deve essere creato un vaccino ad hoc. Quanto in fretta muta il virus? Una volta preso ci si immunizza oppure muta così in fretta che ci si può di nuovo ammalare? Quando sarà pronto un vaccino?
Pronostici pessimisti parlano di normalità tra circa un anno, qualcuno spera ancora di farsi una pasquetta da qualche parte.
Intanto per divagare e tenermi impegnata scrivo questi appunti, per ricordarmi come è ora quando tutto sarà passato.
E se fossi rimasta a Torino?
Sicuramente non avrei visto C per tanto tempo, avrei continuato a lavorare (il fronte lavoro merita un capitolo a parte, lunghissimo e non ancora terminato). Per andare al lavoro avrei preso almeno 4 bus al giorno con il rischio di infettarmi e di infettare Madre e Nipote che ora sono nella stessa casa. Di certo non mi sarei bruciata tutte le ferie. Non sarei riuscita a leggere/scrivere/suonare. Forse finora sarebbe cambiato poco. Avrei passato molto meno tempo al telefono. Forse mi sarei imbruttita (cerco di sistemarmi ogni giorno, truccarmi e vestirmi, anche se spesso è dura). Avrei cercato di imparare ad andare in bici nel cortile di casa. Avrei dovuto recuperare probabilmente una mascherina.
Sarei stata costretta a sentire questi stupidi concerti dal balcone (vi piacciono? Anche no. Essere obbligati ad ascoltare musica per me è una forma di violenza).
La verità è che la vita è cambiata radicalmente. Non si tratta solo di "abitudini" ma proprio del modo che abbiamo di portare avanti le cose, dei nostri schemi mentali.
La frustrazione ci porta a odiare chi può uscire o chi finora era autorizzato a farlo (i runners ad esempio). La camionetta della protezione civile passa sotto casa ricordando a tutti di non uscire se non per estrema urgenza.
Ci si ritrova in chat con gli amici a chiedersi quale mascherina sia meglio, se la fpp2 o la fpp3 (la prima è più che sufficiente, la seconda se stai in laboratorio, ecco). Scopri nuovi complottisti tra le conoscenze di Facebook e sei indeciso se bloccarle o meno, ma poi bestemmi tra te e te perché alla fine queste minchiate complottiste ti fanno ridere e magari fai pure un like così si convincono di avere ragione e continueranno a scrivere cose che poi screenshotterai per condividerle con amici più solidi che rideranno insieme a te. Improvvisamente ti viene voglia di uscire quando nella vita i tuoi weekend avresti voluto passarli morendo sul divano con una tisana e Netflix, o una birra e Netflix, o patatine e Netflix. Di sicuro vorremmo più abbracci quando li abbiamo snobbati finora da bravi asociali.
Ecco forse io soffro meno in questo momento perché siamo in due e non vivo personalmente situazioni a rischio nemmeno dei miei cari. Conosco poche persone a Bergamo o dintorni (che sono al sicuro perché sento), i sani di mente a Milano non escono, la mia famiglia a Torino la sento tutti i giorni e sono relativamente al sicuro anche se poco tranquilli.
Fuori dalla finestra un paio di laghi, montagne che creano vallate, gazze che si rincorrono in cielo.
A Venezia i delfini si affacciano in laguna che, finalmente, ha l'acqua trasparente.
Certe cose accadono per una ragione, direbbe il mio collega meditativo, e oggi più che mai mi sembra che abbiamo perso davvero di vista le cose importanti, che dobbiamo ristabilire delle priorità ed è davvero un peccato che cia voluta quasi una zombie apocalypse a ricordarcelo.
Cristiano mi sta insegnando a prendermi cura delle cose.
Pensavo di essere abbastanza brava in questo, ma vedendo la cura che ci mette quotidianamente a non lasciare segni fisici del suo passaggio sugli oggetti, mi rendo conto di non essere mai stata così accorta.
Ogni sera, quando lo zaino fotografico si svuota, c'è il rito della pulizia delle macchine fotografiche e delle loro ottiche che poi vengono riposte in maniera ordinata nella libreria.
Penso alla mia macchina fotografica, poggiata sul divano, con scheda e batteria sempre all'interno che sì, ha la custodia, ma non ha mai visto un panno umido. E le ottiche vengono pulite solo se sono sporche.
In compenso io sto aiutando Cristiano a prendersi cura di me. E "me" è una persona piuttosto esigente.
Ho sempre fame, esigo continuamente attenzioni, soprattutto fisiche, non sopporto l'abbraccio brevettato da lui "a un braccio solo" e molte volte glielo deve ricordare: "a due braccia".
E, in ogni caso, anche l'abbraccio "a due braccia" non dura mai più di due Mississipi, a meno che non ci si trovi a letto o sul divano. A quel punto i Mississipi non si contano perché sono tantissimi.
Contare i Mississippi, allora, può essere propedeutico al sonno, meglio che contare le pecore.
Cristiano mi sta insegnando ad avere pazienza, a capire che non tutte le persone sono come me e reagiscono come me. Questo mi aiuta relativamente quando le relazioni interpersonali non vanno come spero.
Io gli sto insegnando un altro tipo di pazienza, quello più pratico, qualcosa come "conta fino a 10" o "non vale la pena arrabbiarsi per questo".
Lui mi sta insegnando a presentarmi al mondo, io a essere rilassato nei peggiori panni.
Dall'esterno sembriamo una coppia disfunzionale, l'Alpha e l'Omega ma in qualche modo funzioniamo.
Quando penso a noi penso a un impegno maggiore di quello che ho avuto di solito.
Quando penso a noi penso alle lentiggini sulle sue spalle che vedo ogni sera quando lo abbraccio e mi dà la schiena.
C'è una lentiggine più scura e più grande, quasi a metà di quel percorso un po' sinuoso che dalla spalla arriva al collo a cui mi sono particolarmente affezionata.
Se la sera non riesco a dormire la guardo, mentre le mie lunghe ciglia sfiorano la sua pelle.
È un piccolo percorso di cura e attenzione, pieno di buche e scivoloni annessi, ciò che quella lentiggine mi dice.
È una lingua antica come il mondo, la cura che si ha verso un altro essere umano.
E lui? A quale angolo di pelle parlerà quando vede le mie spalle? Al piccione tatuato? Alla mia cicatrice a metà schiena? Al mio esile collo?
A quale lembo di me si rivolge nel ricordo delle notti passate insieme?
Sono domande che non esigono una risposta ma che lasciano porte aperte a infinite possibilità.
Come le cellule epiteliali che rivestono la cute nascono, muoiono e si rinnovano, ogni giorno ha in sé una promessa non dichiarata ma comunque importante.
È forse questo l'amore. L'attesa di una risposta a una domanda mai fatta, una promessa non formulata ma sottintesa, la costruzione di un desiderio più profondo.
Sai cosa mi impensierisce, cosa mi fa pensare? Che non lo nomini mai. E' come se temessi. Di rompere qualcosa. Questo mi impensierisce.
"Documenti prego"
Si guardarono come se fosse stato nell'aria. Lo percepisci quando c'è qualcosa che non va.
Lei sospirò piano, come a farsi coraggio. Durerà poco vedrai, non perderai il treno, siamo partiti con tanto anticipo.
La poliziotta che lo accompagnava aveva gli occhi chiari e un trucco semplice.
"Anche il libretto della macchina"
Glieli sporse.
"Arrivo subito"
La poliziotta invece restò lì.
"Può abbassare i finestrini dietro?"
Lei percepì il nervosismo di Lui, gli tremava la mano più del solito.
"Meno male siamo partiti prima"
"Già" disse Lui.
Il poliziotto tornò con i documenti in mano. "Seguitemi"
Lei lo guardò.
Sono controlli di routine, fatti randomicamente. Eppure ci si sente sempre come se si fosse in difetto.
"Portate cellulari e zaini".
Lei ridacchiò pensando a un'avventura peggiore in Australia, quando le lessero i diritti e temette di non tornare più a casa. Ma quella è un'altra storia.
"Poggiate gli zaini sul tavolo, sedetevi laggiù" indicando una panca bianca. Bianca come le pareti, bianca come il tavolo di quel minuscolo stanzino.
La poliziotta si infilò i guanti monouso blu.
"Facciamo un piccolo test stupefacenti" il poliziotto ruppe il silenzio.
"Fate uso di stupefacenti?"
"No" esclamò sicuro Lui. "Ma ha visto dove lavoro?"
"Sì"
Quando a Lei toccava scegliere cosa mangiare, o che meta scegliere in un viaggio, poteva metterci diversi minuti prima di intraprendere una strada. Ma quando si trattava di scegliere in fretta, sapeva benissimo cosa dire. Era come se i pensieri prendessero un circuito cerebrale più breve.
"No" disse lei dubbiosa.
In un nanosecondo si chiese se fosse stato meglio dire la verità o mentire e con quale grado di sicurezza affermarlo. Aveva già una scusa in caso di test positivo, probabilmente poco plausibile, ma forse loro non se ne sarebbero accorti.
"Mi dia le mani"
Lui porse le mani, lei fece altrettanto. Ma con quell'anticipo a dichiarar quasi la sua colpevolezza.
"Signora, lei dopo".
Aprì una confezione monouso con un tampone e lo passò sulle mani di Lui.
Lei cominciò a sudare.
Quando toccò a Lei pensò, ecco, ci siamo. Ci fermeranno per altri test, perderò il treno, mi dirà qualcosa che non voglio sentire, lo incasinerò col lavoro, non vorrà più parlarmi.
Mentre la poliziotta frugava tra la sua roba, Lei cominciò a sudare.
Il poliziotto uscì, come a controllare un test dubbio.
Lei sudava.
"Sono negativi".
La poliziotta cercò di sistemarle lo zaino "No faccio io, le cose sono in un ordine, io, bhe. Non ci entrano dopo".
Ultimo controllo alla macchina.
Non erano in molti a passare il varco spaziotempo che divideva questa dimensione con quell'altra, di cui non era dato sapere nulla.
Il treno interdimensionale sarebbe stata l'unica occasione di fuggire da quel mondo malato, in cui il parassitismo dell'uomo lo aveva reso quasi del tutto arido e sterile.
La poliziotta schiacciò un pulsante e aprì un cancello in cui un vortice nero li chiamava nell'oscurità totale.
Lui la baciò "Non posso venire con te ora, ti raggiungerò quanto prima. Devo ancora concludere qualcosa al lavoro, qualcosa di molto importante".
Se quel test si fosse rivelato positivo, se qualcosa fosse andato storto, sarebbero stati condannati entrambi a restare lì. Ripeto, non erano in molti a passare.
Lo guardò a lungo prima di essere risucchiata via dal vortice nero. E poi, com'era venuto, scomparve.
Lui lanciò uno sguardo di disapprovazione ai poliziotti, lo mascherò un po'. Non voleva avere grane. Mancava poco anche per lui e presto si sarebbero riuniti.
Scomparve nella notte, in quella strada che chissà dove lo avrebbe portato.
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"Ehi, questo è il test...?"
"Sì". La guardò.
"Ma è positivo"
"Lo so ma mi sembrava abbastanza disperata. Abbiamo tutti una ragione per avere paura, per essere disperati. Non me la sono sentita di procedere. Non ricapiterà, dall'altra parte"
Lo squadrò con i suoi giovani occhi azzurri. Dietro quella divisa informe si sentiva affascinante e piena di potere, ma così piccola di fronte a quella scelta. Lei avrebbe eseguito gli ordini.
"Dai, bruciamo i test. Tra 15 minuti ci sarà una nuova partenza, dobbiamo essere pronti".
In un luogo lontano, in una galassia lontanissima, pare ci sia una fanciulla dall'aspetto mansueto e lo sguardo languido che attende una nuova vita.
La scelta apparentemente insignificante di un omino in divisa azzurra ha permesso un nuovo scenario, un nuovo futuro.
Un nuovo tutto.
In un luogo molto vicino, qualcuno sta lavorando per rendere possibile tutto questo.
Non dimentichiamolo.
Ho letto da qualche parte, in questi giorni, non ricordo dove, che per cambiare basta fingere. E a forza di fingere presto o tardi viene spontaneo. Non fingere, ma essere come stai cercando di essere.
Non sono brava a fingere. Forse avrò finto un paio di orgasmi, qualche volta, ma da piccola.
Quando mi rendevo conto che non sarebbe mai finita se non avessi portato a termine la mia piccola corsa verso il piacere, rendendo orgoglioso di sé il maschio alpha che accesosi la sigaretta poteva dirsi "Che bravo che sono".
Per poi girarsi e dormire come se avesse sconfitto un drago o avesse aiutato Ercole nelle 12 fatiche. O Asterix. O che ne so.
Il mio atto di ribellione è sempre stato la sincerità. Non ridete.
Madre mentiva in continuazione a Padre, lo faceva per il bene di tutti. Lui non sapeva mai bene cosa accadeva, Madre non lo diceva e gli mentiva perché Padre si arrabbiava spesso per un nonnulla.
Madre mi consigliava di dire sempre che non ero stata io, se accusata di qualcosa, anche se le accuse erano fondate (però quando rubavo i giocattoli all'asilo e se ne accorgeva - poche volte - mi costringeva a riportarli indietro).
Non è educativo, lo so. Ma lei non aveva letto quei libri merdosi che ora leggono tutte le neomamme: "Come crescere un perfetto Milord" o "I no che aiutano a crescere" (sbaglio o esiste davvero questo libro?).
Madre non poteva fare che il meglio che già sapeva fare e lei aveva imparato che mentire era la sopravvivenza.
Io no.
Il mio atto di ribellione era la sincerità.
Come quando venni sgridata per le 2000 lire perse a un'amichetta. Non erano molti soldi, e io ero certa di averglieli ridati. Padre mi mise in castigo e disse che per una settimana non potevo più vedere i miei amici di via Exilles. Avevo 12 anni.
Però Padre era al lavoro tutto il giorno, e Madre mi diceva "Esci, tanto non glielo dico".
Mi rifiutavo. La punizione era giusta e l'avrei rispettata.
Imparai presto che piccole bugie potevano essere un'escamotage per uscire da situazioni imbarazzanti.
"Come mi sta il vestito?"
"Benissssimo"
Ma quelle esse di troppo, sul mio ghigno contratto, avevano l'effetto contrario.
Si vede quando mento.
Esisterà un altro modo di essere diversi da come si è? Essere più coraggiosi, più ironici, più versatili, più sportivi, più abili, più belli, più affascinanti?
Se mi tocca fingerlo, finirà che non riuscirò mai.
Se mi tocca esserlo, forse avrò speranze.
Canzone del giorno: 21st Century Schizoid ManKing Crimson
Voglio narrarvi di questa avventura
di questa guerriera dall'aspetto un po' strano
che non mancava di avere paura
e che indossava un buffo pastrano.
Un giorno incontrò un grottesco animale
che ella seguì per natura curiosa
"Da dove vieni, belva anormale?"
"Ma che domande, ma come osa!"
E la guerriera, nascostasi lesta,
vide l'ingresso di un mondo pazzesco
in cui elfi e gnomi facevano festa
e tutto intorno un ambiente fiabesco.
Da un'iscrizione incisa in un pino
lesse qualcosa che la fece tremare
"Caro avventore, stai pur supino
qui all'incontrario devi guardare!".
Ella si mise così apposta sdraiata
con la testa al contrario a guardare le fate
che all'incovercio la vita è sbagliata
ma se ci credete, allora ascoltate:
"Getta il tuo cuore nel mondo al contrario
tieni il respiro, non muovere un fiato
Guerriera tu credi, non è un lebbrosario
attraversa la porta" disse adirato.
"L'Amore che nasce attraverso le spine,
la morte vestita di rosso rubino,
il giorno che mostra immense rovine,
la notte che ammicca con far birichino"
Veloce vorresti cercar di capire
il mondo fatato però non aspetta
sei in pasto ai leoni e vorresti fuggire
volare, scappare, in tutta fretta.
Non tutto è normale, nel mondo al contrario.
Se provi dolore, diventerà amore?
Cerchi la prova nell'arbitrario
ma questo pensiero ti spezzerà il cuore.
Guerriera nostrana, guerriera fiamminga,
alfin questa terra ti ha conquistata
non lasciar più che il normale ti vinca
ragiona al contrario, sorridi beata
ché il leone alla fine non ti ha divorata
anzi nel pelo hai affondato narici
e fusa hai sentito, ne eri onorata
immersa com'eri nei suoi benefici.
La notte portava lieti sorrisi
le ombre schiarivano pensieri nebbiosi
il sole scuriva e teneva divisi
il giorno donava timor velenosi
La Guerriera rimase nel mondo al contrario
dimostrando a tutti la passata paura
ché non esisteva alcun avversario
nemmen nella situazione più dura.
Avreste mai detto che un giorno recente
sposò un bel principe, pittore moderno:
le mani da sogno, lo sguardo sfuggente,
perduto da sempre in un piccolo inferno.
Nel mondo al contrario, lì sì funzionava
non uscirono mai, e tra fate ed elfetti
si strinser le mani, la notte brillava,
dolci canzoni, momenti perfetti.
Sovvertite il pensiero miei cari guerrieri
cercate il buio, l'ombra più scura.
Amate il rischio, gli orrori più lieti,
nel mondo al contrario è la via futura.
Pronti per un nuovo strabiliante viaggio in Polonia? Sì?
Bene, io no.
Insetti stecco da sistemare presso amico ma solo dopo averli provvisti di rovi, prova peso zaino da fare, cercare ancora diversi collegamenti, guida italiana per la foresta di Białowieza che non risponde ai miei messaggi, ricerca spasmodica di roba invernale a casa, partenza dopodomani.
Ah e domani ho un colloquio.
Di lavoro.
Come grafica.
Editoriale.
Dio non c'è, e se c'è ha un gran senso dell'umorismo di merda.
Stay tuned, che stavolta si gela. Prevedo antipasti, colazioni, merende e cene a base di Vodka.
Canzone del giorno: Mentre DormiMax Gazzè
[Mentre dormi ti proteggo E ti sfioro con le dita Ti respiro e ti trattengo Per averti per sempre Oltre il tempo di questo momento Arrivo in fondo ai tuoi occhi Quando mi abbracci e sorridi Se mi stringi forte fino a ricambiarmi l'anima Questa notte senza luna adesso Vola tra coriandoli di cielo E manciate di spuma di mare Adesso vola Le piume di stelle Sopra il monte più alto del mondo A guardare i tuoi sogni Arrivare leggeri Tu che sei nei miei giorni Certezza, emozione Nell'incanto di tutti i silenzi Che gridano vita Sei il canto che libera gioia Sei il rifugio, la passione Con speranza e devozione Io ti vado a celebrare Come un prete sull'altare Io ti voglio celebrare Come un prete sull'altare Questa notte ancora vola Tra coriandoli di cielo E manciate di spuma di mare Adesso vola Le piume di stelle Sopra il monte più alto del mondo A guardare i tuoi sogni Arrivare leggeri Sta arrivando il mattino Stammi ancora vicino Sta piovendo E non ti vuoi svegliare Resta ancora, resta per favore E guarda come Vola tra coriandoli di cielo E manciate di spuma di mare Adesso vola Le piume di stelle Sopra il monte più alto del mondo A guardare i tuoi sogni Arrivare leggeri Vola, adesso vola Oltre tutte le stelle Alla fine del mondo Vedrai, i nostri sogni diventano veri]
Chi non ha posto in casa, non ha posto nel cuore.
Così mi diceva uno dei miei più cari amici, M.
Casa sua era una specie di porto di mare, la porta sempre aperta. Per cultura è molto ospitale, si mangia quello che c'è, senza preparare i lauti pasti che facciamo noi. A casa sei il benvenuto e mangi ciò che abbiamo.
Io non ho posto nel cuore. Non amo ospitare le persone, sono territoriale e faccio fatica anche se, certo, dipende dalla persona e dalla situazione.
Avere accesso alla grotta di qualcun altro è sempre una concessione non scontata.
Ricapitolando, entrare in casa di qualcuno è un po' come sapere che gli state entrando nel cuore. Io non so chi altri ha avuto questo onore, ma entro, mi tolgo le scarpe per non sporcare e cammino in punta di piedi.
Osservo bene come si muove l'altra persona, per capire in quali spazi posso esistere, che io sono sempre un po' goffa; osservo la grotta che lo ospita e comprendo, osservando dalla finestra, i vari motivi per cui l'ha scelta.
Mi siedo sul divano e lo guardo cucinare per noi, una coccola particolare che io apprezzo tantissimo.
È una normalità a cui non sono più abituata. Il fare la spesa, guardare un film abbracciati sul divano e addormentarsi l'uno sull'altra facendo l'amore prima, durante e dopo.
Prima, durante e dopo qualsiasi cosa.
Il picchio rosso però è lì in agguato. Si sente a chilometri di distanza e anche se ti tappi le orecchie il suono impercettibile c'è.
Tictictictictic
[bzz bzzzzz]
Sembra quasi un cigolìo.
Tictictictictic
[bzz bzzzzz]
Il suono del picchio è come il rubinetto che gocciola e che ti impedisce di godere di un buon sonno. Le premesse ci sono tutte, sei stanco, ti si chiudono gli occhi, hai anche la possibilità di farti quelle belle 8 ore di sonno ma.
Tictictictictic
Io ora sono il piccolo suricate di guardia, il collo allungato e lo sguardo attento alla ricerca di pericoli. Non riesco a essere tranquilla, non ci riesco.
Nonostante la bellezza di questi giorni, non riesco.
È che ho sofferto tanto e non voglio più stare male.
A livello razionale mi sento tranquilla, lo sento. A livello emotivo è scoppiato un allarme antincendio con evacuazione in atto e non so se si tratta di un'esercitazione o se è un incendio reale.
RagnoB mi consiglia di godermi il qui e ora, e poi si vedrà. Controllo il tatuaggio con la stessa scritta, è ancora lì? Sono ancora io quella persona che vive di istanti?
Il picchio non da' tregua ma quando cala la notte e la foresta si anima di presenze silenziose, posso chiudere gli occhi e sognare cose belle. Le mani che stringono le mie, una parola dolce appena sussurrata, una carezza inaspettata.
Allora posso dire al suricate che non c'è pericolo, il picchio dorme nella sua tana, il rubinetto smette miracolosamente di gocciolare.
Fino al giorno successivo.
Stamani accedo a una playlist di Spotify che non ascolto mai perché davvero piena di canzoni, troppo. La playlist si chiama "aereo" e l'avevo tirata su per i viaggi lunghi. Mano a mano è diventata un'accozzaglia di roba mista che passa dai Pantera, ai Megadeth, a Neffa, a Gazzè, a Silvio Rodriguez, ai Propagandhi, ai Carlos Puebla Y Sus Tradicionales.
Poi è arrivata una canzone, una canzone che mi ricorda un preciso istante della mia vita.
Era l'11_02_2011, i nerd comprenderanno bene che si tratta di una data palindroma, ed è la data in cui io e Fry ci siamo incontrati.
Quando ci si conosce e comunque si passa un po' di tempo per la prima volta insieme (ammicca ammicca) si cerca sempre di essere in forma, bellissimi. Si evitano puzzette, si sta a dieta da qualche giorno prima per avere una pancia piatta e perfetta.
Io e Fry eravamo bellissimi, ecco.
Oggi riascoltavo quella canzone che comunque NON È la nostra canzone ma ricorda quei primi giorni.
E pensavo con malinconia che quel primo periodo non ho mai espresso al mondo quanto ci tenessi a lui, perché sapevo che Roccio mi leggeva che avrebbe potuto soffrirci. È stato come soffocare il mio impulso naturale a scrivere di quanto fosse bello quel momento per evitare di far soffrire qualcun altro. E così, probabilmente, ma forse anche no, ho reso infelici entrambi.
Questo è un pensiero molto femminile eh? Nella peggiore delle ipotesi a nessuno dei due importava cosa io scrivessi o no.
Però ci pensavo e ci ripensavo e mi chiedo, oggi, se quel primo momento io lo abbia goduto appieno oppure lo abbia un pochino nascosto.
Non che questo modifichi le cose, assolutamente.
Comunque in quel giorno palindromo io e Fry ci siamo messi insieme e quella domenica mattina abbiamo interrotto, dietro mio preciso ordine, qualsiasi coccola perché un mio amico andava in onda in RAI con questo pezzo e volevo assolutamente vederlo (il mio amico è il tastierista con la cresta e gli occhiali che si vede in controluce. Oggi fotografo, videomaker, ecc ecc).
Sì, lo so, tralaltro è stato lui a iniziarmi al metal e sentirlo fare questi pezzi mi ha letteralmente spezzato il cuore (scherzo Alelè, lo sai). Però per dire, sorridevo del fatto che la sapessi ancora a memoria.
Fry, sappi che ti ho amato tantissimo. E ti chiedo scusa se non sono riuscita a dimostrartelo al meglio. Ecco.
Con quegli otto anni di ritardo che bhe, lo sapete, io sono sempre sul pezzo.
È che a volte la vita si mette di traverso con un sacco di cose e io sono ancora in sindrome premestruale, e via così.
Detto questo, oggi ultimo giorno di lavoro e di contratto per tanti colleghi, non hanno rinnovato due persone del mio settore.
Il regalo aziendale di Natale, devo dirlo, è stato davvero pessimo.
20 dicembre 2018
Sapevo che non sarei dovuta tornare su Facebook.
Sono serena come quando ieri ero sotto la neve. Così.
Ogni volta che mi arriva un messaggio è un colpo.
Una bastonata sullo stomaco. Mi formicolano le estremità, comincio a sudare.
Sto male. Mi manchi.
Io penso si sottovaluti il significato di questa parola.
Mi manchi ma non sei qui.
Mi manchi ma non con me.
Mi manchi ma non sei tu.
Tra i complimenti, qualche aggiustata di tiro.
Eh ma fumi la pipa.
Eh ma sei una bandieruola.
Eh ma non sopporto che controlli le cose su facebook.
Eh ma sei andata dalla cartomante.
Eh però non mi piace quando bestemmi.
No.
Ieri guardavo una stand up comedy di Daniel Sloss (finora il mio secondo preferito), che è un comico un po' dark, molto pungente. A un certo punto ha detto una cosa che mi ha dato un'ulteriore bastonata.
Amatevi.
Sì, banale.
No, amatevi al 100%. Perché se voi vi amate al 20%, incontrerete una persona che vi ama forse al 30% e penserete "Oh mio Dio quanto mi ama!". E non è nemmeno la metà.
Amatevi al 100% perché la persona che incontrate dovrà amarvi in tutto e per tutto. Dovrà dimostrare di amarvi al 110% perché altrimenti non sarà abbastanza.
Dovrà amare la mia pipa, il mio modo di essere, incoerente a volte, ma sicuramente curioso, la mia passione per gli insetti, le mie insicurezze e paure che, credetemi, sono tante, amare il mio desiderio di viaggiare e scoprire, il mio essere inconcludente, i miei momenti tristissimi al pari di quelli gioiosi, dovrà sopportarmi cantare sotto la doccia e le caterve di libri che prendo, dovrà amare il sentirmi suonare (male) tutti i miei strumenti, amare il mio desiderio di spazi e di libertà, il mio desiderio inespresso di essere incoraggiata.
E. dice che soffriamo perché non siamo fatti per stare da soli.
No, io dico che soffriamo perché non ci amiamo abbastanza.
Ma in queste condizioni il potere manipolatorio delle persone che ci circondano è immenso.
Perché se incontro, oggi, chi mi ama al 30% ha ancora il potere di cercare di cambiarmi per poi riscoprirmi, io, a essere una persona che detesto, solo perché non sono più io.
Io sono quella che parla di cazzi col collega, quella che bacia l'amico gay, quella che balla coi vecchi nei locali, quella che va a vedere i bisonti nella foresta, quella che bestemmia.
E non voglio più sentirmi dare dell'inaffidabile solo perché chi mi guarda vede riflessa un'immagine distorta di sé.
Che non sono io l'inaffidabile. Ma chi, frequentando un'altra persona, mi dice che gli manco. E se fosse capitato a me, mi dico? Se fossi io quell'altra persona? Come penso che sarebbe andata a finire? Quanti mi manchi inviati ad altri numeri?
Tra i miei tantissimi difetti ce n'è uno che danneggia soprattutto me stessa, ovvero la capacità di dare TANTISSIME possibilità. Non c'è limite alla mia distruzione in questo senso. Ma riguadagnarsi la mia fiducia è dura.
Anche perché perderla è davvero una missione impossibile.
Canzone del giorno: Skunk AnansieTwisted (Everyday Hurts)
Oggi ho lavorato 9 ore e mi sono ricordata il significato di squadra.
A parte che in questi giorni ho ricevuto messaggi vocali molto carini dai miei colleghi "Carla, ci manchi, quando torni?" (sono stata impupata 3 giorni) e oggi avevamo un obiettivo record che a detta di tutti non avremmo mai raggiunto.
Eppure quando la responsabile ha chiesto chi fosse disponibile a restare un'ora in più oltre le 4 ore di straordinario già concordate, pochi sono andati via. Più che altro per i figlioli, penso, ma anche tra chi li aveva qualcuno è riuscito a smollarli al familiare libero di turno. E alla fine, indovinate, ce l'abbiamo fatta.
Io non ho avuto la fortuna di fare sport. Ma nella sfortuna sono stata comunque fortunata.
Leggi pure "fottesega dello sport, io". I miei compagni sfoggiavano belle medaglie per le gare di nuoto, coppe per le partite di pallavolo e/o calcio e/o basket.
Per fare sport servivano soldi e qualcuno che ti venisse a riprendere la sera.
Io non avevo né l'una né l'altra cosa.
Così quelle poche volte che a scuola organizzavano partite di pallavolo o altro ero scoglionata due volte. Non sono mai stata competitiva, e sono sempre stata l'ultima a essere scelta per formare una squadra di qualsivoglia sport.
Non so se siete stati i classici sfigatelli come me, ma in quei frangenti io penso che i ragazzini non riescano a fare gioco di squadra. Pur di vincere gli sfigati vengono lasciati in fondo, senza dar loro nessuna possibilità di miglioramento. E in questo probabilmente gli allenatori fanno la loro parte. Dico male? Chissà.
Dai, siate sinceri, avete passato la palla al compagno che è stato scelto per ultimo, pur sapendo che magari non avrebbe azzeccato un tiro? Pur sapendo che vi avrebbe tolto il punto che vi avrebbe portato alla vittoria?
Io ero quel compagno. E avrei avuto anche gli occhiali se non mi fossi categoricamente rifiutata di portarli fino a che non mi sono resa conto di salutare (o no) la gente a caso per la strada (quindi parecchi anni dopo).
Una delle mie amiche era la persona più competitiva che conoscevo. Anche a basket, dove il passaggio della palla è essenziale, lei era capace di correre da una parte all'altra del campo da sola, senza fare alcun passaggio e fare canestro.
Era snervante.
In genere, quando accadeva, io mi sedevo annoiata in fondo al campo attendendo la fine della partita, con l'insegnante di educazione fisica che diceva "Dai Colombo, almeno sta' in piedi".
Non avevo medaglie, avevo solo voglia di giocare a palla prigioniera scavalcando il recinto per entrare nel campetto della chiesa del "Fungo" (così veniva chiamato il parchetto di zona). O a nascondino. O a qualsiasi cosa dove ci si potesse divertire e muovere senza per forza dover vincere, o dove comunque la vittoria non era lo scopo.
Lei no. Riusciva a essere competitiva anche a nascondino.
Barava a visual game.
Si arrabbiava quando perdeva, stravolgendo le regole a suo favore.
Oggi eravamo lì e anche se sappiamo tutti che non è il lavoro della vita, è stato carino affrontare questa giornata devastante insieme. Mangiando come dei maiali, scherzando come se non ci fosse un domani, e lavorando per una vittoria comune.
Mi scrive una email I.
Io e I. non ci siamo conosciuti per caso. L'ho contattato diversi anni fa, dopo aver letto un suo articolo per il giornalino dell'UGI. Parlava del suo tumore adolescenziale, un aggressivo Osteosarcoma. Lo scrivo con l'iniziale in maiuscolo perché il suo nome possa essere letto con la reverenza che la malattia merita. Un ospite cattivo, aggressivo, inatteso.
Lo contattai, dicevo, perché noi ex tumorati di dio abbiamo un filone comune nelle nostre storie, per quanto arriviamo da ambienti diversi, educati in modi diversi, abbiamo tutti la stessa modalità di cercare il nostro posto nel mondo. Alla fine io e I. non ci siamo visti molto spesso, posso dire che forse ci siamo visti 2 o 3 volte nell'arco di questi 10 anni e più.
Vivevo a Bologna quando mi mandò la prima bozza del libro che stava scrivendo sulla sua storia. Decisi di leggerlo in modo matematico, 20 pagine al giorno almeno, per poterlo terminare in circa una ventina di giorni, si trattava infatti di una prima versione di ben 400 pagine e, mi diceva, era solo la prima parte.
Nel corso di questi anni mi ha inviato altre versioni che io non ho mai letto. Ho avuto questo periodo di rifiuto relativamente lungo in cui ho allontanato ogni connessione con qualcosa di inerente alla mia malattia.
Oggi mi arriva una sua email, con una sua più recente versione. Ecco, mi sento pronta a leggerlo.
Quando lo lessi la prima volta mi chiesi se ci fosse stato bisogno di un ALTRO libro sul cancro. Ora poi, che Nadia Toffa (purtroppo per lei e chi le sta accanto) si è ammalata, qualsiasi altro ingresso sul mercato letterario sembra superfluo.
Un personaggio famoso e malato di cancro.
Però io penso che la vicenda di I. sia diversa. Un po' perché, a differenza mia e della qui sopra specificata presentatrice, c'è un totale rifiuto della malattia. Mentre io sfoggiavo la mia pelata con orgoglio a dimostrare la battaglia interiore e anche esteriore, ben visibile, che stavo affrontando, I. ha nascosto tutto, con l'accuratezza di un prestigiatore che mostra solo ciò che vuole mostrare. La parrucca, emblema di questo sodalizio con i suoi segreti, ne è testimone. Accuratamente acconciata e sistemata per non essere spostata in nessun modo, nemmeno se qualcuno avesse dovuto scompigliargli i capelli, in un gesto di affettuosa amicizia o altro.
Sono stata fortunata. Io ho compreso subito di essere una guerriera, I. ha purtroppo scoperto questa cosa molto dopo. Lo si legge tra le righe, dell'orgoglio attuale per quel ragazzino che sente così lontano, così diverso da lui ma allo stesso tempo ne è stato parte.
Voglio molto bene a I, anche se non ci vediamo quasi mai.
Con tutto questo volevo solo chiedergli sinceramente scusa per non esserci stata, ma... No, nessun ma, nessuna giustificazione. Ora sono pronta.